Bielorussia: nascita di una nazione

Sicuramente molti di voi avranno sentito parlare almeno una volta della “Bielorussia”, ma fin troppe persone non ne conoscono ancora l’esistenza. C’è chi la confonde con la Prussia, chi intuisce possa avere a che fare con la Russia, chi scambia Minsk con Kiev, chi si arrende e confessa di ignorarne l’esistenza. Può sembrare insolito, ma si trova esattamente al centro geografico europeo. Abito in Italia dal 2003, sono cittadino di entrambi i Paesi e non temo di essere smentito se parlo della Bielorussia come della nazione più sconosciuta nel continente europeo. Dal 9 agosto però sta occupando le prime pagine delle testate europee e mondali. In quel fatidico giorno d’estate si sono svolte le seste elezioni dell’era post-sovietica, dell’era che avremmo potuto battezzare come democratica se non fosse per il fatto che a vincere le elezioni è stato per la sesta volta consecutiva Aliaksandr Lukashenka. Anche se l’Ue ha giustamente dichiarato illegittimo il presidente eletto, in Bielorussia, appena oltre i confini dell’Unione, governa un dittatore. Ha la pelle bianca, gli occhi scuri, un bel paio di baffi, uno sguardo semplice; non è un assetato fondamentalista religioso o il rampollo di una potente dinastia, i suoi sudditi non vivono al di là del Mediterraneo né hanno gli occhi a mandorla. Basterebbe prendere un volo di tre ore Roma-Minsk per essere testimoni di tutte queste cose. Dunque “che cos’è questa Bielorussia” e come mai nel centro d’Europa esiste una dittatura da ventisei anni? Cercherò di spiegarlo.
Mi chiamo Hleb Papou, sono nato a Minsk, in Bielorussia, il 25 dicembre 1991. L’8 dicembre dello stesso mese fu siglato l’accordo di Belavezha, un trattato con cui i leader di Bielorussia, Russia e Ucraina sancirono ufficialmente la fine all’Unione Sovietica. Dopo sessantanove anni sotto l’Urss, nasceva finalmente lo stato indipendente della Repubblica di Belarus (Bielorussia). Io personalmente rientravo in quella prima generazione di bielorussi che sul proprio passaporto riportavano la scritta “nato in Repubblica di Belarus” e non più “Unione Sovietica”.
Dei miei primi anni d’infanzia a Minsk ho dei ricordi abbastanza vaghi, ma non è colpa di Lukashenka, credo funzioni così con le cose che riguardano i nostri primi anni di vita. Come potevo essere confuso io, era confusa la Bielorussia. All’epoca veniva propagandato, con una discreta dose di paura del cambiamento, un nostalgico ritorno al passato sovietico, ma allo stesso tempo s’incitava alla rinascita nazionale. Mentre sbocciava il libero mercato, con i profitti, le corporazioni, i sindacati e la disoccupazione (inesistente nell’Unione Sovietica) nasceva timidamente una nuova nazione in Europa. Dopo la sottomissione sovietica, in Bielorussia ebbe inizio la cosiddetta bielorussizzazione della società. Il primo presidente di quegli anni fu Stanislau Shushkevich, già presidente del Consiglio supremo della Bielorussia sovietica poco prima della sua dissoluzione. I primi anni dell’indipendenza furono contrassegnati da un bisogno di riaffermazione dell’identità culturale ed etnica. I bielorussi riscoprirono il Granducato di Lituania, del quale mutuarono orgogliosamente l’antica bandiera bianca-rosso-bianca e lo stemma “Pahonia”, ovvero un cavaliere corazzato su un cavallo bianco. L’introduzione e l’affermazione di un’unica lingua ufficiale nel Paese, ovvero il bielorusso, e lo stesso ritorno all’antico nome “Belarus”, preferito al più diffuso “Bielorussia” sottolinearono un allontanamento sempre maggiore dalla confinante Russia.
Insomma, Shushkevich voleva ridare un’identità nazionale al paese, soffocata fino a quel momento dalla politica culturale dell’Unione Sovietica.
Il processo di (ri)nascita di questa nuova nazione d’Europa fu però interrotto con le prime elezioni ufficiali e democratiche del 1994. In quest’ottica, le elezioni del 9 agosto 2020 sono state il coraggioso tentativo di riprendere quel processo troppo frettolosamente abbandonato, ma procediamo con ordine. Nel 1994 avevo circa tre anni e vivevo con mia madre e mia nonna. Mia madre aveva da poco abbandonato il suo lavoro statale da insegnante di lingua e letteratura russa nelle scuole superiori e intrapreso l’attività di accompagnatrice in Italia di bambini bielorussi. Mia nonna invece lavorava in una delle prime società private, una casa editrice, faceva la correttrice di bozze.
Nessuno poteva minimamente immaginare ciò che stava per succedere. Il processo di riforma democratica si è troncato con la vittoria schiacciante nel 1994 di Aliaksandr Lukashenka, eletto democraticamente per la prima e l’ultima volta. L’uomo del popolo, come amava farsi chiamare, era una persona di sani principi sovietici che prometteva di abbattere le differenze di classe e di costruire una Bielorussia più giusta ed equa, era il direttore di una fattoria agricola collettiva (Kolchoz) nell’Unione Sovietica, un lavoratore bielorusso come tanti, insomma un populista demagogo degli anni Novanta. In sostanza le strade che si aprivano di fronte a lui erano due: economia di mercato come stavano realizzando gli altri Paesi dell’ex blocco rosso oppure controllo statale sull’economia e il riavvicinamento alla vicina Russia. Scelse la seconda tra l’entusiasmo dei bielorussi che dovettero attendere il referendum popolare del 1996 per assistere al primo, colossale imbroglio elettorale della neonata, e già trasformata in qualcosa d’altro, Repubblica. Cambiò la giovane costituzione bielorussa, passando da una Repubblica semipresidenziale e una totalmente presidenziale, aumentando così le sue capacità di controllo sull’intero apparato statale, ripristinò la vecchia bandiera e lo stemma sovietico limitandosi a omettere la falce e il martello, introdusse il russo come seconda lingua ufficiale, capì come mettere a tacere le opposizioni e attuò una politica di stampo socialista. Metodi non democratici hanno contraddistinto i suoi anni di governo fino all’arresto di quasi tutti i candidati potenzialmente forti durante tutte le elezioni presidenziali, compresi quelli del 2020. Negli anni, il potere di Lukashenka si è impossessato dell’intera macchina statale. La polizia gli è sempre stata fedele, permettendogli di mostrare i muscoli tutte le volte che è stato necessario. La svolta definitiva nel suo percorso di governo è arrivata nel 1999. L’allora suo ministro dell’interno osò criticarlo apertamente entrando in conflitto con gli ordini di Lukashenka, ma non ottenne i risultati sperati, anzi fu licenziato con un ordine presidenziale. Quell’anno sparì in circostante misteriose. Il suo nome era Yury Zhacharanka e viene considerato come una delle prime vittime del regime di Lukashenka. Lo stato era diventato Lukashenka in persona.
Dal punto di vista economico, la mancanza di competitività delle grosse fabbriche bielorusse a livello europeo ha influenzato la creazione di un surplus di produzione che rischiava di mettere in crisi tutto l’apparato industriale. I magazzini erano pieni di roba e non si vendeva. Solo grazie alle continue iniezioni di presiti provenienti dalla Russia si è riusciti a sanare la situazione. Per fare un esempio pratico: nella fabbrica statale di trattori di Minsk lavorano circa 18mila operai, su una popolazione di 9.5 milioni. Nel gruppo Fiat sono attorno ai 29mila. Il primo punta ai mercati di Venezuela e Nigeria. Sul secondo non c’è bisogno che ve lo dica.
Il popolo pian piano si rassegnò entrando in un lungo letargo, quella fragile identità bielorussa fermatasi al 1994 si trasformò in qualcosa di artificiale creato da Lukashenka. La nascita della nazione è rimasta in sospeso.
Dopo il secondo cambio della costituzione del 2004, che poneva fine al limite di due mandati del presidente bielorusso, Lukashenka ha deciso di diventare il nuovo dittatore d’Europa. Le elezioni del 2006, del 2010, del 2015 furono stravinte clamorosamente da lui sempre con l’80% dei consensi.
Nel frattempo mia madre continuava a viaggiare in Italia con più frequenza e infatti nel 1997, quando avevo cinque anni, feci il primo viaggio con lei. Da allora cominciai ad andarci quasi ogni anno in vacanza e nel 2003 insieme a lei ci trasferimmo per sempre in Italia, dove abito tutt’ora. Con gli anni divenni un osservatore a distanza, valorizzando quanto sia importante crescere e vivere in un Paese democratico come l’Italia. E se io o mia madre provavamo a fare un confronto con i pregi della democrazia che erano presenti in Italia o in Europa con i bielorussi in Bielorussia, questi si irritavano, puntando il dito contro l’Italia, criticandola per l’invasione incontrollata degli immigrati o per i matrimoni degli omosessuali. Il regime di Lukashenka in questi ventisei anni ha cercato di creare un mondo parallelo, autoproclamando la Bielorussia come “il Paese più stabile e sereno del pianeta”. Per di più, da quando c’è stata la rivoluzione ucraina del 2014, Lukashenka ha iniziato a citarla continuamente, minacciando guerra civile, catastrofi e collasso economico, nel caso in cui fosse arrivata l’opposizione al potere. Ci si poteva fidare solo della Russia e del fratello Putin. Sicuramente una parte considerevole della popolazione era a suo favore. La stragrande maggioranza però era diventata menefreghista, focalizzandosi sul lavoro e sul desiderio di costruire qualcosa nonostante il regime. Una parte consistente ha deciso di emigrare. E infine una piccola parte ha scelto di proseguire la sua battaglia politica contro il dittatore, in favore di una Bielorussia libera e democratica. La mia sensazione era quella di avere a che fare con un popolo allineato alle assurdità del “Padre padrone”. E già, questo è l’appellativo, dal bielorusso “batska”, che gli viene ancora rivolto da un discreto numero di simpatizzanti. Ho temuto che l’idea di una Bielorussia libera e indipendente fosse velleitaria e che prima o poi il centro geografico dell’Europa sarebbe stato annesso alla Grande Russia. Mi sbagliavo. Il popolo era entrato in un lungo letargo, dal quale si è ufficialmente svegliato il 9 agosto 2020.
Per assurdo, il primo grazie di questa storia è per il Covid-19. Avendo negato completamente l’esistenza del virus, definendo la legittima paura dei bielorussi una psicosi di massa e dichiarando che il virus va curato andando in sauna e bevendo vodka, Lukashenka diede per l’ennesima volta dell’imbecille al proprio popolo. Il fatto che il governo bielorusso non si sia impegnato a seguire le linee guida dell’Oms, ha portato a un isolamento ancora maggiore del Paese. Chiuse le frontiere, il Paese che è sempre stato al primo posto per il rilascio dei visti Schengen in rapporto alla popolazione nell’ex Urss, è stato costretto a eliminare una delle poche libertà ancora concesse ai cittadini bielorussi. Con l’avvicinarsi delle elezioni, le cose sono però precipitate e i tre maggiori candidati politici per la corsa elettorale sono stati arrestati, o ne è stata invalidata la candidatura. Sviatlana Tsikhanouskaya, la moglie di uno degli arrestati, ha deciso di continuare ciò che il marito aveva iniziato: candidarsi e vincere.
L’apparato di Lukashenka non si è preoccupato di metterla a tacere, considerandola debole elemento d’opposizione. Quello che nessuno però in Bielorussia poteva immaginare, è che questa donna, ex insegnante di lingua inglese diventata casalinga, avrebbe potuto coalizzarsi con altri due gruppi d’opposizione rappresentati tra l’altro da altre due donne (Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova) dando origine così a un grande blocco di unità nazionale.
In poche settimane prima di andare al voto è riuscita a risvegliare lo spirito nazionale dei bielorussi dall’est all’ovest, raccogliendo decine di migliaia di persone durante il tour elettorale. Ad attenderla per il comizio di Minsk c’erano circa 65mila persone.
Il cambiamento in Bielorussia si è sentito nell’aria per tutta la calda estate del 2020, per la prima volta non solo la nuova generazione era in prima linea contro Lukashenka ma anche quella operaia parastatale. All’improvviso, senza che questa fosse deliberata da qualcuno in particolare, sono ricomparse la bandiera bianco-rosso-bianca e lo stemma storico “Pahonia”, diventando i vessilli del cambiamento e della rinascita della nazione.
Il 9 agosto però, Lukashenka ha vinto ancora con l’80% dei voti. Durante le giornate del voto vi fu il divieto di far partecipare osservatori internazionali e affini. Gli osservatori bielorussi invece hanno riportato centinaia di brogli. Qualcuno è stato persino arrestato per aver denunciato l’accaduto. Secondo la piattaforma alternativa Telegram “Golos”, dove hanno espresso il voto più di un milione di bielorussi mandando la foto della propria scheda elettorale al bot del sistema (in Bielorussia non è vietato farla), l’80% è stato a favore della candidata Sviatlana Tsikhanouskaya.
Il popolo è esploso in proteste per questa enorme frode elettorale e la sera del 9 agosto è sceso in piazza nelle proprie città. Le tre notti di scontri post voto hanno portato a più di settemila arresti, cinque manifestanti uccisi, più di duecento persone finite all’ospedale, di cui molte in gravi condizioni, più di settanta persone scomparse, mille denunce registrate per torture e pestaggi da parte delle forze dell’ordine.
L’obiettivo era quello di una repressione criminale purché si distruggesse ogni minima speranza di cambiamento. In seguito alle tre “notti dei lunghi coltelli” in tutta la Bielorussia da parte delle forze dell’ordine, il popolo però non ha ceduto, rispondendo con la più grande manifestazione pacifica della storia del Paese indipendente. Il 16 agosto, una settimana dopo il voto, sono scese tra le 250mila e le 300mila persone per le strade di Minsk, raggiungendo quel giorno la quota di mezzo milione di manifestanti in tutta la Bielorussia, su una popolazione di 9,5 milioni. A partire dal 9 agosto, ogni giorno il Paese è scosso da grandi manifestazioni pacifiche, scioperi bianchi, picchetti per la solidarietà che si muovono dalle grandi città fino ai piccoli villaggi. La macchina repressiva dello Stato continua a sopprimere ogni tipo di azione contraria con arresti e licenziamenti di massa, ma una cosa è certa: il popolo non vuole più fermarsi ed è partito ufficialmente il conto alla rovescia verso una nuova pagina della Bielorussia indipendente. Il popolo ha battuto la propria paura, ed è su quest’ultima che si reggeva il sistema di Lukashenka.
Sviatlana Tsikhanouskaya, reduce da intimidazioni, è dovuta fuggire a Vilnius in Lituania.
Lukashenka ha accusato apertamente Polonia e Lituania di voler compiere un’invasione militare ai confini dell’ovest e di minare la stabilità nazionale. In seguito ha immediatamente contattato il suo collega Putin. L’effetto che avrebbe voluto ottenere era quello di spaventare la popolazione con la minaccia dell’intervento delle forze speciali russe. Ma pure in questo caso nessuno si è tirato indietro. Non si molla più.
Dall’altro lato tuttavia l’Unione Europea si è espressa abbastanza timidamente nei suoi confronti. In Italia c’è stata solo Laura Boldrini che ha fatto visita ufficiale alla Tsikhanouskaya, denunciando pubblicamente ciò che sta succedendo lì. E se l’Ue e gli Usa hanno paura di interferire, la Russia si sta sovrapponendo con più peso nelle questioni interne della Bielorussia. In questo caso allora è giusto che questa partita si giochi esclusivamente in casa senza intromissioni altrui. Grazie agli scioperi bianchi il rublo bielorusso ogni giorno diventa più debole e come conseguenza la tesoreria statale si sta sfaldando. Lukashenka non può pagare all’infinito il suo esercito personale di poliziotti e punitori.
Come ha affermato Tsikhanouskaya, “questa non è una rivoluzione proeuropea o antieuropea, prorussa o antirussa, ma è un’autoaffermazione popolare per poter esprimere democraticamente il proprio voto”. Nelle piazze difatti non si vedono bandiere dell’Ue, Usa, Nato o Russia, ma soltanto simboli autentici bielorussi, la bandiera bianco-rosso-bianca e lo stemma “Pahonia”. L’obbiettivo è quello di poter scegliere la propria strada democraticamente, seguendo le basilari regole della libertà, avere il diritto di votare e essere ascoltati. Sarà un periodo di transizione sicuramente molto ostico con parecchi ostacoli, ma finché il popolo è unito, come finalmente è avvenuto, qualsiasi sfida può rendersi possibile.