Architettura, lingua, ecologia

Il testo che segue è il discorso di apertura della seconda giornata del Convegno nazionale di architettura degli interni “Costruire l’abitare contemporaneo: nuovi temi e metodi del progetto”, svoltosi all’Università Federico II di Napoli il 17 e 18 gennaio scorso. (g.b.)
Per sua natura l’architettura tocca un’infinità di temi diversi. Neppure diversi decenni di impiego di quello strumento riduzionista che è il famigerato concept, una categoria più adatta alla pubblicità e al marketing che al progetto di architettura, sono riusciti a prosciugare del tutto il carattere strutturalmente plurimo dell’habitat umano. Nel senso che ognuno può decidere che il proprio progetto si concentra su un solo tema, su un unico “concetto”, ma se poi esso diventa realtà, l’infinità di aspetti che compongono il mondo reale che si era preteso di rimuovere si ripresentano inesorabilmente, e chiedono il conto. Oggi ci troviamo precisamente in un momento in cui la moltitudine di aspetti rimossi dal delirio di onnipotenza formale riduzionista del moderno, che aveva pensato di svincolarsi dalla dimensione terrestre grazie alla tecnologia, sta presentando il conto, ed è un conto molto salato.
I temi implicati dal progetto di architettura sono quindi, e rimangono, malgrado tutto, infiniti. Ma vorrei qui provare ad affrontare un tema che oggi mi sembra in qualche modo preliminare a tutti gli altri, che riguarda l’architettura, e addirittura la stessa possibilità della sua esistenza, e al contempo la trascende ampiamente. Ed è questo: come possiamo fare a non farci schiacciare dalla montagna di ciarpame mediatico, tecnologico, formativo, normativo che ci sta sommergendo? Esiste ancora, nel campo dell’architettura, uno spazio per il discernimento, cioè per raccapezzarci e orientarci nel cercare di distinguere, come dicono le Scritture, “il grano dal loglio”? C’è ancora uno spazio per la decisione personale in un mondo dominato dalla comunicazione? Non vedo come poter parlare di architettura oggi senza cercare di identificare questa situazione e questo contesto.
Come sappiamo, una delle tecniche del newspeak, la neolingua dettagliatamente immaginata da Orwell in 1984, era di stabilire l’impiego di parole che significavano esattamente il contrario di ciò che appariva: joycamp, campo della gioia, per campo dei lavori forzati, o Minipax, contrazione di Ministry of Peace, ministero della pace, per ministero della guerra, e così via.
Nel nostro mondo dominato dalla comunicazione, e nella sua architettura, il procedimento del rovesciamento semantico della neolingua ci è ben noto.
Esiste ancora, nel campo dell’architettura, uno spazio per il discernimento, cioè per raccapezzarci e orientarci nel cercare di distinguere, come dicono le Scritture, “il grano dal loglio”?
La famigerata Smart City sarebbe il paese della cuccagna in cui tutti i problemi della città contemporanea vengono risolti dall’automazione integrale: la panacea di tutti i mali, compresa la riduzione dei consumi che sarebbe imprescindibile per contrastare l’apocalisse ambientale verso la quale siamo diretti, sarebbe affidata a un aumento del consumo di tecnologia informatica, così come l’espansione democratica e la diffusione partecipativa sarebbero assicurate dal reticolo telematico, dalle sue centrali, dai suoi macchinari e dispositivi, un complesso tecnologico e finanziario le cui dinamiche – tra big data, monopoli e obsolescenze programmate – sono risaputamente tra le più opache, verticistiche e incontrollabili. Dove è finita quella linea di critica radicalmente ragionevole della tecnologia che ha percorso gli ultimi due secoli di espansione industriale e poi post-industriale, che va da William Morris a Gunther Anders a Ivan Illich, fino al sano scetticismo di massa affiorato dopo Chernobyl e Fukushima? La neolingua della comunicazione sembra averla neutralizzata praticamente del tutto. Eppure la nostra esperienza quotidiana non è fatta solo di idilli tecnologici, l’assurdo informatico ha dimensioni metafisiche e ci accompagna tutti i giorni: il mio portatile mac, su cui sto scrivendo, ha dieci anni e funziona benissimo (lo dico malgrado il mio disprezzo per Steve Jobs e i suoi seguaci), ma è ormai un clandestino, un dropout che non può aggiornarsi perché impiega un sistema operativo che è stato dichiarato estinto da tempo. Il plotter che abbiamo in studio ha vent’anni ed è una bestia da soma che potrebbe andare avanti altri venti, se non fosse per i software più aggiornati, a cui non ci sono alternative, studiati appositamente per renderlo inservibile. E il fatto che il comando fondamentale di ogni dispositivo elettronico, di questo Moloch a cui cercano di convincerci di affidare sempre più interamente la nostra vita, l’unico vero comando risolutivo, quando anche il più sofisticato dei tecnici informatici non sa più dove sbattere la testa, rimanga il celeberrimo “spegni e riaccendi”, dovrebbe essere sufficiente a ricordarci che accanto all’Intelligenza artificiale esiste pur sempre un’Imbecillità artificiale. Se confrontiamo l’attrezzatura necessaria a un architetto, e i relativi costi, in tutta la storia dell’umanità fino alla fine del secolo scorso – sostanzialmente delle matite e qualche squadra – con quella imposta dalle nuove tecnologie negli ultimi venticinque anni – computer, rete, connessione, plotter, software, tutti di durata brevissima e da rinnovare e aggiornare sistematicamente – pensiamo di essere arrivati al punto più basso dell’asservimento dell’architetto, a un livello di perfezionamento del ricatto mai prima raggiunto da un’industria commerciale. Invece ecco che arriva il famigerato Bim (Building Information Modeling), un vero salto di qualità nell’accanimento informatico, e diventa via via sempre più obbligatorio. Qui non si tratta più di disegnare, ma di inserire nel sistema delle informazioni. Se per caso mi viene in mente di realizzare un tipo di muro che non è già presente nel sistema, devo chiedere l’intervento di un operatore Bim, e se è complicato, a sua volta anche lui deve rivolgersi a un super-operatore, eccetera. Quali tipi di muri sono già presenti nel sistema? Quelli più utilizzati. In questo modo, chi può dedicare tempo e risorse all’utilizzo di muri di tipo diverso, magari meno cretini da un punto di vista ecologico? Solo chi può permetterselo, e deve pensarci bene. Ecco un modo ancora più perfezionato per mantenere lo status quo e impedire che qualcosa di sostanziale cambi, a parte le forme superfluamente stravaganti, oltre che per spingere ad un livello ancora più estremo l’asservimento dell’uomo alla macchina e per aggiungere un ulteriore traguardo di burocratizzazione al processo progettuale. Il tutto naturalmente in nome dell’innovazione.
l’unico vero comando risolutivo, quando anche il più sofisticato dei tecnici informatici non sa più dove sbattere la testa, rimanga il celeberrimo “spegni e riaccendi”, dovrebbe essere sufficiente a ricordarci che accanto all’Intelligenza artificiale esiste pur sempre un’Imbecillità artificiale
Ma la malattia dell’aggiornamento già da tempo non riguarda più solo le macchine e si è trasferita agli umani. È la “vergogna prometeica” descritta con anticipo da Günther Anders, l’imbarazzo dell’uomo per non essere all’altezza delle macchine che ha creato. Ora gli architetti sono dei computer scadenti che vanno continuamente aggiornati: il loro software mentale e manuale, che un tempo durava una vita, ha tempi di decadenza velocissimi. Ora devono fare regolarmente corsi di formazione, e ottenere i punti necessari a dimostrare che si sono formati. Viene postulata una nuova legge inesorabile, secondo la quale se gli architetti non si aggiornano regolarmente tornano alla loro pericolosa condizione di esseri “sformati”, senza forma. In questo modo, torniamo tutti tra i banchi delle elementari, qualcuno giudica se stiamo studiando, se stiamo studiando abbastanza, e se stiamo studiando qualcosa che è ritenuto formativo; alla nostra età, fingiamo di seguire corsi online, teniamo da parte i biglietti delle mostre per dimostrare che le abbiamo viste. Com’è possibile che un’intera categoria professionale abbia di sé un’idea così poco adulta da non ribellarsi a una simile ridicola umiliazione autoinflitta?
Il campo in cui il newspeak realizza le sue migliori performance è però quello ecologico: più le questioni sono cruciali e urgenti, più in profondità agisce il suo rovesciamento semantico. Gli architetti scendono in campo contro il cambiamento climatico: qualche mese fa in Inghilterra si raggruppano sotto la sigla Architects Declare. Nel ristretto numero dei promotori troviamo lo studio di Norman Foster e quello della buonanima di Zaha Hadid. Qualche mese dopo, poche settimane fa, un coraggioso manipolo di architetti italiani raccoglie il testimone e fonda la sezione nostrana dello stesso raggruppamento: tra di essi Fuksas, De Lucchi, Abdr. In poche settimane hanno aderito 266 studi italiani, tra cui il mitico e ingiustamente dimenticato studio Ragazzi & Partners, che per un buon quarto di secolo ha dato forma a tutti i sogni architettonici e urbanistici di Berlusconi, progettando Milano 2, Milano 3 e molti altri interventi analoghi. Di fatto, dalle stalle alle stelle, da Ragazzi a Fuksas a Foster, si tratta di un ritratto dell’establishment dell’architettura del nostro tempo. Hanno mai dato prova, implicitamente o esplicitamente, e anche solamente in piccolissima misura, con la loro architettura, di una benché minima preoccupazione ecologica? Hanno accompagnato questa loro nuova presa di posizione con qualche velata forma di ripensamento a proposito di quel modello insediativo, costruttivo, finanziario aggressivamente distruttivo dell’ambiente e dell’habitat umano che la loro architettura ha fin qui attivamente contribuito a plasmare? No. In un mondo dominato dalla comunicazione, i più sfrenati propagandisti della Megamacchina possono farsi paladini della difesa dell’ambiente senza cambiare di una virgola le loro posizioni, e senza che nessuno si sbellichi dalle risate. Non è un caso che i numerosi Boschi verticali siano divenuti simboli architettonici della sostenibilità: condomìni-anni-settanta un po’ più alti del normale, con balconi-fioriera un po’ più grandi del solito, ma con la consueta struttura in cemento armato, l’usuale isolamento in orrido polistirene, l’abituale prismatica indifferenza ai diversi contesti specifici e ad ogni elementare principio bioclimatico. La retorica che li accompagna è concentrata su un unico assioma quantitativo: moltiplicare il numero di piante in modo da assorbire una maggiore quantità di co2. L’obiettivo sembra quello di rendere possibile la sopravvivenza, non tanto del pianeta e del genere umano, quanto dell’attuale modello di sviluppo così com’è, con il suo carico abnorme di co2. Assolutamente mai si accenna al fatto che questo stesso modello di sviluppo – che corrisponde sia a un sistema di valori e di abitudini che all’ideologia dominante del business, del successo e dell’accumulazione del denaro – è in sé insostenibile e intimamente connesso allo sconvolgimento climatico, e che il contrasto a quest’ultimo impone un radicale cambio di paradigma. Il lifting del condominio-anni-settanta è solo una parodia commerciale di questo radicale cambio di paradigma, ma in un mondo dominato dalla comunicazione sta diventando il simbolo del contrasto al cambiamento climatico.
Come avviene per i temi radicalmente destabilizzanti della crisi ecologica, il discorso dominante della comunicazione riesce ad assorbire ogni spunto potenzialmente critico o dirompente, a incorporarlo, neutralizzandolo. Così come attraverso il green-washing il green è diventato un’ulteriore merce prodotta e venduta da chi ha attivamente contribuito, e continua a farlo, alla produzione dello sconvolgimento climatico, c’è anche un social-washing, dove social è il termine della neolingua che definisce i dispositivi dell’alienazione organizzata e dell’atomizzazione di massa. È difficile trovare oggi un’architettura che, contro ogni evidenza, non venga venduta come green e social.
Il campo in cui il newspeak realizza le sue migliori performance è però quello ecologico: più le questioni sono cruciali e urgenti, più in profondità agisce il suo rovesciamento semantico.
Questa forma di neutralizzazione e diluizione del senso critico avviene anche all’interno del campo stesso dell’architettura. Ad esempio, è incredibile che, per quel che ne so, in tutto questo tempo nessuno abbia sentito l’urgenza di mettere seriamente in discussione le posizioni e la produzione di Rem Koolhaas, la figura sicuramente più influente e potente dell’architettura degli ultimi quarant’anni, la più rilevante nella formazione dell’immaginario delle generazioni che sono maturate nell’ultimo terzo di secolo. Non è facile tenere testa all’estrema abilità, forza e scaltrezza del discorso di Koolhaas, ma l’ambiguità, il cinismo e la voluttà con cui con il suo lavoro ha avallato le forze più distruttive all’opera nei territori contemporanei, legittimando diverse forme di brutalità e aggressività di volta in volta architettonica, ambientale, politica e finanziaria, sarebbe stata degna di una messa in discussione e di una critica all’altezza della sua durezza, soprattutto negli ultimi anni in cui i nodi ambientali sono venuti più manifestamente al pettine. E invece ci si continua a inchinare a questo maestro, anche davanti ai suoi tentativi di incorporare in modo cinico i temi dell’emergenza ecologica e della tutela del patrimonio, seguendo i meccanismi fagocitanti di quella stessa comunicazione che egli ha da sempre manipolato. Spero che dalle nuove generazioni possa arrivare la critica coraggiosa di questo maestro di distruttivismo voluttuoso che non è arrivata dalla nostra.
La neolingua contemporanea che rovescia i significati, trasforma l’ecologia e la socialità nella loro parodia mercificata, ci libera asservendoci alla tecnologia; la comunicazione che diluisce il senso critico; e, non ultimo, l’accanimento normativo, delle garanzie e delle certificazioni, che impedisce il prodursi di una architettura che non abbia introiettato in modo sostanziale l’immaginario burocratico, e che di fatto finisce per deresponsabilizzare gli architetti e i cittadini distraendoli dal loro discernimento personale. Tutti questi elementi mi sembra convergano verso un’architettura svuotata di tutto ciò che è vivo, cordiale, fraterno, umile, corporeo, di ciò che è terrestre, di tutta l’infinita varietà dei temi che l’habitat umano offre e a cui accennavo all’inizio. Un’architettura prosciugata e ridotta alla sua sola inanimata forma apparente. Non la forma di un corpo vissuto, ma la forma inerte come puro intrattenimento. Di fronte a questo quadro difficile che ho tracciato, scusandomi per la sua pesantezza, mi piace concludere con una frase bellissima di un grande cittadino di questa città e del mondo, Eduardo De Filippo, che in questa cornice suona come un amuleto, un invito a non arrendersi: “Se cerchi la forma trovi la morte. Se cerchi la vita trovi la forma”.