Allo specchio del barbaro
Da quando sono tornata in Mauritania dopo sei anni di assenza, la parola più ricorrente al momento in cui la famiglia si riunisce, soprattutto ai pasti, è Nicaragua. Persino i bambini piccoli del villaggio hanno imparato questa parola e se gli chiedi in quale paese gli piacerebbe andare, se in Italia, in Francia o in Spagna, paesi dove spesso hanno pezzi di famiglia o conoscenti, ti rispondono a sorpresa: “In Nicaragua”. Il Nicaragua è infatti il nuovo varco per entrare negli Stati Uniti, per bucare l’Occidente. Si calcola che nell’ultimo anno circa 12.000 giovani (e non solo) mauritani siano partiti per il paese centroamericano in cerca di fortuna. Si tratta perlopiù di persone in possesso di un titolo di studio che, sostenuti anche dalle loro famiglie che si tassano per affrontare le spese del loro viaggio (parliamo di una cifra comunque molto alta per una famiglia mauritana media, che “investe” sul futuro successo dell’operazione con la speranza di una vita migliore per sé stessa e per la comunità in generale), preferiscono questa strada a quella ancor più perniciosa del deserto e del mare, nella speranza di avere accesso ad una vita che nel loro paese di origine vedono come irrealizzabile. Da qui e da altri paesi intorno è infatti facile entrare in Nicaragua con un visto turistico fatto direttamente all’arrivo. Una volta lì, si continua attraversando il Guatemala, l’Honduras, il Messico, fino al momento in cui si cerca di entrare negli States, via Yuma in Arizona, percorrendo spesso, come succede per altre tratte, lunghissimi tratti a piedi.
In questi giorni, ogni membro della famiglia racconta di qualcuno che conosce a sua volta qualcuno che è partito e tutto prende la forma di un epos polifonico che accarezza i sogni dei più giovani e dei piccoli, ma che la saggezza dei più anziani cerca di smorzare con il racconto – in certi casi vissuti in prima persona su altre rotte – delle difficoltà dell’arrivo, dei mille pericoli, della durezza della vita che una volta arrivati i migranti sono costretti a vivere, fino al momento del rimpatrio che è sempre un orizzonte di rischio concreto ma che, nonostante tutto, non sembra scoraggiare a ritentare più volte la fortuna.
Mi chiedo spesso come si raccontino queste storie, come si faccia a restituire la loro dimensione concreta e la loro complessità che si articola spesso da noi in una domanda: ma chi glielo fa fare? Mi rendo così conto che la questione del qua e del là, del dare voce, del raccontare l’altro è una delle sfide più delicate ma anche più politicamente significative del tempo che viviamo. La paura di cadere nel buonismo, nell’esotizzazione, nello stereotipo o, per contro, di non perimetrare abbastanza ciò che è corretto e ciò che non lo è, mi pare essere un vero banco di prova del presente, ma anche una tenace trappola da cui è difficile stare lontani. Mentre sono qui mi chiedo dove è la cesura, cioè dove inizia la difficoltà di raccontare le vite di chi non vive in Occidente, ma che comunque è mosso da simili desideri, da sogni, da curiosità e da speranza. Mi chiedo in quale momento quel noi e loro, poroso, trasparente, diventi invece, a un tratto, scivoloso e troppo spesso invalicabile. Da cosa dipende e quale ruolo gioca un pericoloso costante richiamo, anche in ambienti non sospetti, ad una forma di identitarismo tesa a creare soprattutto distanza e separazione o, al polo opposto, un’infrangibile idea di universale che non riesce a non essere altro che un’ottusa misura di grado di civiltà, che porta a considerare l’altro da sé come un pericolo perché eterno barbaro. Raccontare la migrazione si confonde, allora, con la difficoltà di raccontare appunto questo estremo altro da sé, il barbaro di cui sopra che non è assimilabile per sua scelta, che, per dirlo con Louisa Yousfi, vuole rimanere barbaro, rivendicandolo come diritto e più precisamente come strategia di diritto alla sopravvivenza.
In questa complessa trappola è caduto purtroppo anche un bravo regista come Matteo Garrone, pur se animato dalle migliori intenzioni, in Io Capitano. Come lui stesso ha più volte dichiarato è stato a lungo a Dakar per preparare il suo film, eppure l’immagine che ci restituisce di quella città non riesce a liberarsi dagli stereotipi del sabar, festa con tante percussioni e danze, del marabout, lo stregone/sacerdote a cui si rivolgono i due protagonisti prima di partire e soprattutto di una certa idea “purezza” della popolazione locale (e dei due straordinari attori protagonisti), come l’ha peraltro definita Garrone in varie interviste, cosa che però ci rimanda a un certo tipo di narrative coloniali sul continente e che, in questo caso, sembra sfuggire a una lettura della complessità che attraversa quella come altre metropoli africane. Forse anche per questo i personaggi sono così poco descritti a tutto tondo, finendo per essere dei cliché esattamente di quell’idea di purezza che è parente stretta di sature narrative popolate da varie modalità di buon selvaggio. Eppure il tema migrazione, che come ha ricordato la rivista Nigrizia in una coraggiosa recensione al film, è stato il tema centrale dei due capolavori che hanno fondato il cinema senegalese, La Noire de e Touki Bouki, ma anche del meno noto Soleil Ô di Med Hondo, continua ad essere un tema portante della ricca espressione culturale senegalese, come dimostrano non solo film più recenti come Atlantique, La Pirogue o Yoole, ma anche le tante serie televisive nazionali super seguite grazie ai telefonini come Gaal Gui o Tekki Fii, oltre alla letteratura, alle arti visive e performative, e alle tante iniziative della società civile per combattere l’immigrazione dei giovani. Anche da noi, per altro, non sono mancati negli anni film sul tema, penso, ad esempio, al lavoro pioneristico di registi come Dagmawi Yimer o Andrea Segre. Certo, Io Capitano presenta alcune scelte interessanti, come quella di far parlare gli attori nella loro lingua, il wolof, ma anche in questo non c’è un vero ritorno narrativo, perché non c’è una storia capace di liberare quello che rimane un dettaglio e che si limita così a restituire solo un po’ di realismo, visto che tutto risulta estetizzato fino al limite, venendo così a svuotare il potenziale di una storia che si mantiene sempre incerta e in un costante negoziare tra invenzione e documentario, come appare esplicito nella parte in cui si racconta la traversata del deserto in cui i corpi di cui quelli che non ce l’hanno fatta sembrano avere una funzione quasi ornamentale. Garrone ha potuto contare su un grosso budget, accanto ai due bravi protagonisti si è potuto avvalere di attori da noi poco conosciuti ma riconosciuti altrove, come il burkinabé Isaka Sawadogo (il muratore anziano) o il franco-tunisino Hichem Yacoubi (il capo trafficante), per fare però un film sostanzialmente vecchio che non mi sembra raccontare novità a chi segue anche solo le notizie televisive (la rotta, il traffico, la Libia, la tortura, il pericolo del viaggio non sono certo cose nuove). Ci dovremmo interrogare allora su perché questo film sia piaciuto tanto anche a sinistra. Temo perché la vittima per una volta è diventata eroe. E questo ci libera sicuramente dal peso con cui assistiamo quotidianamente agli sbarchi, quasi senza più vederli però, purtroppo. Ma temo non basti per saltare il fosso e guardare con nuovi occhi a ciò che non ci somiglia a prima vista cercandone la complessità.