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Alberi e bambini. Un romanzo di Alberto Capitta

8 Giugno 2013
Sara Honegger

Forse è proprio così che accade ai ragazzini. Ci guardano e sulla nostra pelle, fra i nostri capelli, lungo le braccia, vedono arance e ciliege, alghe e fiorami lussureggianti. E che dire di quella capacità di cogliere il sorriso della montagna e il sentore lontano di uccelli migratori? O di comprendere, come in una irripetibile unità onomatopeica, le similitudini fra i borbottii del sottosuolo e il pascolare dei pensieri, soprattutto quando cattivi? Sì, è solo dei ragazzini – e degli strani eremiti che popolano il mondo letterario di Alberto Capitta – guardare con stupore le viscere scarlatte di un animale, diventare intimi di una donnola, girare per terre nuove a piedi, con una sediuccia sulle spalle, feticcio di un mondo distrutto dall’ennesima guerra, dall’ennesima umana invidia. Ma forse nel dire ragazzini esageriamo, che sempre più costretta dentro binari prestabiliti è la crescita, e rapida la fine di quel contatto con il cosmo che Rudolf Steiner leggeva fisicamente nella cosiddetta fontanella, zona morbida al culmine del capo, aperta verso il cielo finché le ossa del cranio non si chiudono. Forse ormai è solo dei bambini, e anche molto piccoli, ancora senza parola, vivere un mondo dove le cose non hanno confini, neanche uomini e animali, e una ferita sulla guancia diventa, come avrebbe detto Leo Lionni, un piccolo rosso.

Ma il sardo Alberto Capitta bambino non è, le parole le conosce a fondo: e con Alberi erranti e naufraghi (Il Maestrale 2013) torna alla poetica avviata da Creaturine (Il Maestrale 2004), riproponendo al lettore quella dimensione creaturale dell’esistenza che è anche la cifra più importante attraverso cui leggere tutti i suoi romanzi: una dimensione che raccoglie non solo bambini ed eremiti, ma l’intero creato. Senza urtare la sensibilità laica di questo autore, giustamente considerato fra i maggiori dell’isola, potremmo dire il senso del religioso, inteso nella sua dimensione pre-confessionale e pre-secolarizzata, come capacità di cogliere i legami fra le cose, in modo specifico fra l’aspirazione alla vita e l’irrimediabile chiamata della morte, accettabile e perfino variopinta quando iscritta nel corso della natura; brutale, insensata, insopportabile quando recata dagli uomini.

Giuliano Arca e il padre Piero vivono ai margini del paese, della vita collettiva. Non danno fastidio ad alcuno: il loro unico interesse è curare gli animali feriti, che Piero porta nella sua casa fino a trasformarla in un caravanserraglio di suoni, odori, occhi che si aprono appena appena. E però, come sempre accade, il solo fatto di esistere diviene per altri intollerabile. Nel mondo geometrico e rigido dei Nonne, militari e assassini per vocazione, quella tensione verso la vita, quell’indifferenza alle regole da loro imposte, è un insulto, un errore: non c’è che da far partire l’ennesima crociata contro il movimento. Cadranno molti animali – di terra, di cielo – ma cadrà anche un uomo: Piero Arca, appunto. E’ a partire da questo assassinio, e dallo scoprirsi orfani, che inizia l’avventura del giovane Giuliano fra le terre in gran parte ignote di una Sardegna in bilico fra storia e natura, contemporaneità e mito, come sempre nei romanzi di Capitta – fra tutti, Il cielo nevica (Il Maestrale, 2007). Un romanzo di formazione, quindi, che a tratti ci ha ricordato l’Arturo di Elsa Morante; ma anche un delicato racconto di piccole isole di fratellanza: l’amicizia con il fragile Emilio Nonne, figura che incarna tante vittime della violenza familiare e nei cui tratti pallidi riconosciamo amici e antenati la cui storia giunge fino a noi; una bottegaia dedita a un presepe, accogliente e di poche domande; la repubblica de “I bambini”, se così la si può definire, presso la quale il giovane decide di restare per un po’, perdendo la sedia ormai divenuta superflua; fino a una tenerissima e inarrestabile storia d’amore, scritta come sempre Capitta scrive l’amore. Sono pagine piene di una felicità incontenibile, quale la provano solo gli innamorati, il cui tempo si dilata e si concentra al tempo stesso, divenendo istante che non finisce. Accadeva a Rosario e Bianca, in Creaturine; accade qui a Giuliano e Maddalena, chiamati l’uno all’altra senza pausa, senza intermezzo. Se la morte data dell’uomo è piatta, noiosa, ripetitiva – squadra i volti, i pensieri, le azioni – l’eros coincide tutto con il lussureggiare di una natura che si fa pelle di sale, arbusto, vento, viscere d’animale fra le mani di un tenero e disperato veterinario. Non ci viene in mente nessun altro scrittore contemporaneo – a parte il poeta Nino De Vita, capace di riportare tutto in vita con il siciliano – che abbia simili sensibilità e competenza linguistica nei riguardi di quella natura dal quale ormai ci sentiamo irrimediabilmente separati. Nominando (e talvolta occorre munirsi di un buon dizionario), è come se Capitta cercasse di riannodare fili lacerati, costringendoci a un ascolto e a uno sguardo che a tratti si rivela impossibile, immersi come siamo nei suoni urbani, nelle colate grigio asfalto. Manca il fiato.

È proprio questa scrittura, la cui origine Capitta ha raccontato in alcune pagine mirabili de Il cielo nevica, definendola capacità di “leggere la carne”, a bilanciare e talvolta a vincere sul pessimismo che per altro intesse le sue storie: la brutalità di molti dei legami umani, le catene generazionali di violenza da cui cercano di sottrarsi i pochi a cui gli occhi non si sono mai chiusi o improvvisamente si aprono, come nel caso di Maddalena Branca. Alcuni ce la fanno; i più soccombono. E in questo intravediamo quel senso del lutto, dell’inutilità dell’azione umana, che tanto caratterizza lo sguardo sardo, votato alle infinità dell’entroterra assetato più che alle distese avventurose del mare: di lutto è intrisa ogni cosa, anche l’amore; che s’accende, divampa, ma raramente trionfa. Eppure, ci piace pensare che Alberi erranti e naufraghi termini con un’apertura capace di contemplare anche una soluzione diversa, effimera come tutto sulla terra, ma reale, concreta: due corpi che si amano, che si cercano, che si bevono l’uno dell’altra. Che hanno la forza di ricaricarsi i pesi sulla spalle e rimettersi in cammino, in cerca di un nuovo approdo.

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