Ad agraria

L’interesse da parte delle nuove generazioni nei confronti della materia Agraria non è solamente dovuto al riconoscimento di come il settore agricolo, nel mezzo delle crisi economiche e finanziarie di questi ultimi decenni, sia uno dei pochi settori che riescono a sopravvivere e di come la terra sia tornata a essere un investimento sicuro; infatti, la crescente consapevolezza della responsabilità del modello agroindustriale nel disastro ecologico ha portato sempre più giovani a vedere in una pratica agricola differente la possibilità di realizzare un cambiamento all’interno del sistema produttivo, orientandolo verso un maggiore rispetto delle risorse, dell’ambiente e delle diverse forme di vita che lo abitano.
Chiedendo a chi frequenta o ha frequentato in questi anni i corsi delle scuole di Agraria di Bologna e Firenze, spesso si nota che uno dei motivi nello scegliere questo indirizzo di studi è proprio il desiderio di acquisire conoscenze relative a uno dei settori più intimamente connessi con la Terra, con l’idea di poterle applicare a tutela del territorio e del pianeta.
Partendo dall’analisi delle nostre esperienze di studio abbiamo constatato che questo slancio ottimistico iniziale si scontra nella maggior parte dei casi con l’amara presa di coscienza di come raramente vi sia occasione di acquisire tali saperi e competenze nelle aule delle facoltà di Agraria. Attualmente infatti esse non rispondono alla necessità di trovare letture differenti della pratica agricola; peraltro, esse neppure sembrano capaci di orientare con successo i laureati verso un mondo del lavoro lontano ed estraneo al mondo accademico.
Leggendo a posteriori i nostri percorsi universitari, ci pare che le problematiche maggiori riguardino la strutturazione dell’insegnamento delle scienze agrarie e soprattutto l’idea di agricoltura che viene veicolata all’interno delle aule.
Una parte del problema riguarda l’organizzazione stessa dei corsi: le materie da affrontare sono molte e diversificate tra loro, con temi che spesso non c’è il tempo di approfondire tramite, ad esempio, lezioni pratiche o laboratori, che in una facoltà di indirizzo scientifico sarebbero auspicabili. In questo percorso solitamente l’esperienza di chi viene dal tecnico-agrario è quella di ripetere al ribasso il percorso appena concluso mentre chi proviene da altri indirizzi è introdotto superficialmente in un mondo estremamente variegato e complesso. A sentire i commenti dei nostri colleghi più anziani, l’abbandono del classico schema quinquennale in favore del “tre più due” aveva contribuito a rendere di fatto l’avvicinamento alla laurea una corsa dai tempi serrati, in cui molti non riescono a stare al passo. Questo aspetto non riguarda solamente le facoltà di Agraria, ma riflette a pieno l’attuale impostazione dell’università italiana, in cui molto spesso l’obiettivo principale è che le studentesse e gli studenti superino gli esami per ottenere i crediti formativi e giungere alla laurea, rendendo troppo spesso il sapere un insieme di nozioni tecniche, decontestualizzate dall’ambiente socio-economico in cui debbono inserirsi, riducendo gli alunni e le alunne a dei “vuoti da riempire”, citando Paulo Freire… e certo, ciò non toglie che ci siano eccezioni positive che si distinguono e che sarebbe bello divenissero la regola.
L’università non è più vista come un luogo di cultura e formazione, ma un’istituzione che ha fatto proprio il modello produttivista aziendale: un “laureificio”, un luogo in cui si producono laureati aventi un pezzo di carta a garanzia.
Torniamo però alle criticità specifiche della scuola di Agraria: è previsto che in tutti i corsi di studi vi siano numerose materie scientifiche, che creano l’impalcatura oggettiva e a-critica entro cui collocare – e ci verrebbe da dire giustificare – tutte le materie che invece si riferiscono alla pratica agricola e all’agricoltura come settore produttivo. In tale modo, all’interno di una cornice scientifica, percepita da studenti e studentesse come immobile nel tempo e al di sopra del giudizio, vengono veicolati punti di vista, scelte d’insegnamento e di contenuti che al contrario sono tanto discrezionali e soggettivi quanto quelli delle scienze sociali, nel momento in cui essi si riferiscono al mondo fuori dalle mura accademiche e che in esso ricercano un’applicabilità.
Quello che spesso ci è accaduto nelle lezioni è che professori per lo più anziani trasmettano nozioni estremamente sicure e precise, ma aderenti a schemi risalenti a decenni or sono. Anche se l’anagrafe ha sostituito buona parte del corpo docente – e con esso quel positivismo dogmatico figlio (o padre) della rivoluzione verde – permane un approccio pragmatico, monolitico e puntiforme allo stesso tempo, utilizzato nell’agricoltura in generale e insegnato nelle università. Tale presunzione di insegnare saperi dogmatici – tanto più in una facoltà di ambito scientifico – è forse ciò che fa sì che sia estremamente difficile che studentesse e studenti riescano in maniera indipendente a scardinare l’impronta con cui certi saperi vengono insegnati; a questo si aggiunge che l’impostazione degli insegnamenti e delle tematiche dei vari corsi di laurea – sia triennali che magistrali – se da un lato esprime l’intento di fornire una visione generale sul ruolo dell’agricoltura nel mondo, dall’altro risulta eccessivamente frammentata, mai realmente approfondita e senza una contestualizzazione relativa all’ambito ecologico e alle diverse strutture socio-economiche in cui viene praticata.
In questo approccio le molteplici pratiche agricole risultano ridotte a un’unica agricoltura e un unico modello, quello agro-industriale, riconducibile a un solo sistema socio-economico e a una sola morfologia territoriale, quelli che meglio si adattano a massimizzare l’efficienza e la redditività del modello proposto. Questo, oggi come quarant’anni fa, rimane il riferimento produttivo per eccellenza e ciò che viene veicolato non sono le varie tecniche che permettono di parlare di agricolture – vi sono pratiche alternative realmente praticabili, che vanno dal metodo biologico alle molte altre praticate nel mondo in contesti rurali – bensì l’ottimizzazione della pratica dominante.
Nelle loro linee generali, molti corsi delle facoltà di Agraria sembrano situarsi ancora in un mondo in espansione, dalle risorse infinite. La reale sostenibilità dell’agricoltura, la conservazione della biodiversità, la progettazione di sistemi che non mettano a rischio la possibilità stessa di riproduzione della vita umana sul Pianeta – in un presente di emergenza ecologica – trovano poco spazio nei programmi didattici. Non si menzionano minimamente le contraddizioni insite nel modello agro-industriale, non si parla di agro-ecologia se non in termini astratti; non si insegna quel cambiamento di paradigma, di scala, di valori di cui la produzione di cibo avrebbe bisogno.
Riferimenti alla sostenibilità ambientale, al mantenimento della biodiversità e alla tutela della salute umana si trovano sparsi nei vari corsi, solitamente più come meri richiami alle normative e agli obiettivi strategici europei che come spunti di riflessione ed educazione. Le strategie che vengono proposte agli studenti e alle studentesse vengono solitamente ricondotte solamente ai due grandi settori della ricerca in campo agricolo: l’ingegneria genetica per la creazione di piante sempre più resistenti a condizioni climatiche avverse e l’uso di nuovi agrofarmaci, anch’essi oggetti prioritari dell’innovazione agricola.
Il metodo biologico, il solo preso in considerazione come alternativa possibile al sistema convenzionale o integrato attuale, non gode di un proprio insegnamento – se non come corso di alta formazione post-laurea, alto anche nel costo –, viene toccato marginalmente in alcune materie e a discrezione dei singoli docenti e il più delle volte trattato esclusivamente come un settore di mercato “interessante”. Ancora non si riesce a parlare in aula del biologico come pratica sostitutiva di quella convenzionale ma solamente come un possibile percorso da consigliare all’azienda che voglia differenziare la sua produzione espandendosi verso nicchie di consumo ad alto valore aggiunto.
Lo disse bene una nostra professoressa a una lezione: l’agricoltura biologica è lodevole, ma possiamo sperare noi di sfamare i dieci miliardi di persone che saremo con l’agricoltura biologica? Sì, se solo venisse introdotta una visione diversa a partire dalle aule universitarie.
Certo, esiste qualche eccezione: capita che docenti dalla mentalità particolarmente aperta riescano ad aprire brecce, a far talvolta deragliare i programmi delle proprie materie dai binari dell’ortodossia. Il problema resta nel mantenimento del piano tecnico, specifico, quando invece la prima materia che a oggi dovrebbe essere insegnata in una facoltà di Agraria dovrebbe suonare come “filosofia dell’agricoltura” o qualcosa del genere. La descrizione del rapporto con le risorse utilizzate e con l’ambiente in senso lato, dei principi che muovono l’azione dell’agricoltore, del tecnico, del consumatore, dei rapporti tra produttori di input e quantità e qualità dell’output: tutto ciò rimane nebulosamente avvolto nel mistero.
L’obiettivo dell’istituzione universitaria, senza essere nemmeno troppo celato, rimane produrre soggetti in grado di lavorare e muoversi dentro l’attuale modello agricolo senza metterlo in discussione. Stesse dinamiche dell’ultimo mezzo secolo, solamente un po’ più “green”.
D’altra parte, anche la ricerca in questo settore è ormai finalizzata soltanto a mettere insieme saperi vendibili sul mercato, direttamente o tramite aziende private parallele ai dipartimenti e composte dagli stessi soggetti.
Si potrebbe obiettare che, quanto meno, la facoltà prepara al mondo del lavoro in agricoltura. Ma a quale panorama lavorativo, potrebbero d’altra parte controbattere i neolaureati e le neolaureate? Che tipo di realtà lavorativa mostra la Scuola di Agraria ai suoi studenti e alle sue studentesse? Due sono le modalità principali tramite le quali, nell’ambito universitario, si entra in contatto con il mondo del lavoro.
Una è costituita dai cosiddetti “Job Days”, giorni durante i quali laureandi e laureande e imprese legate al mondo agricolo possono interagire entro i confini universitari. Le realtà che partecipano a questi eventi sono solitamente un aggregato dei grandi nomi dell’industria agroalimentare regionale e di quelle a essa legate e necessarie per il suo funzionamento: imprese sementiere e produttrici di agrofarmaci. Vengono lasciate da parte imprese, magari più piccole, che portano avanti un diverso modo di fare agricoltura o si collocano semplicemente su una scala minore.
Vi è poi il tirocinio curriculare da svolgere durante il percorso di studi. Il tirocinio teoricamente rappresenta una duplice opportunità, per mettere in pratica alcune delle conoscenze acquisite durante le lezioni e contemporaneamente muovere i primi passi nella propria carriera lavorativa. Lo studente o la studentessa può svolgere il proprio tirocinio in una delle aziende già convenzionate con l’università oppure proporre una convenzione con un’azienda da lui/lei scelta; anche in questo caso nella lista di soggetti già convenzionati vi è un oligopolio di grandi aziende che incarnano il modello agricolo dominante e le eccezioni probabilmente figurano solo in quanto risultato di proposte di alcuni studenti e studentesse.
Se consideriamo inoltre che la platea di persone che frequentano questa facoltà è piuttosto diversificata in termini di formazione scolastica pre-universitaria – e comprende perciò molti immatricolati totalmente estranei al mondo agricolo – capiamo quanto sia problematico il quadro semplificato dell’agricoltura italiana fornito dalla facoltà di Agraria.
Insomma, come neolaureati/e ci ritroviamo a non avere le competenze sufficienti non solo per operare all’interno di tipologie di agricoltura alternative, ma neanche per entrare in aziende “convenzionali”.
A sopperire alle carenze di una proposta formativa ufficiale spesso superficiale e statica, abbiamo imparato che può esistere un fermento dal basso, un insieme di relazioni informali non quantificabile dai crediti formativi, ma di gran lunga più importante. Non per merito dell’istituzione universitaria, ma per l’azione di coloro che, invece di “subire” l’insegnamento, lo agiscono cercando fonti alternative, pretendendo chiarezza e rigettando le ambiguità. Non parliamo solo delle fondamentali iniziative dei collettivi organizzati, di cui noi come tanti e tante abbiamo fatto parte: ci riferiamo a quella diffusa tensione curiosa di cui molti studenti e molte studentesse, ancora immuni all’omologazione, non riescono a liberarsi. È all’interno di questo substrato umano che popola cortili e aule autogestite che vive la facoltà come spazio di socialità e crescita e non soltanto come luogo di corsi e di esami: è qui che si dà il meglio di ciò che si intende per università. Relazioni che producono conflitto dentro e fuori le facoltà, si stringono in rapporti amicali, diventano, perché no, occasione di crescita professionale e di emancipazione economica una volta al di fuori; relazioni che, paradossalmente, senza il denominatore comune della partecipazione a una didattica conservatrice e allineata non sarebbero mai esistite. Ad esempio, senza il Collettivo di Agraria di Firenze non sarebbe nata la campagna di accesso alla terra “Terra bene comune” e la realtà di Mondeggi Bene Comune probabilmente non sarebbe esistita. In maniera simile, a Bologna i Collettivi di Agraria in questi ultimi anni hanno spesso interagito con le reti dei produttori e delle produttrici contadine promotrici di cambiamento a partire dalle pratiche agricole, come Campi Aperti e Arvaia.
L’università può avere un ruolo nei processi di trasformazione della realtà a patto che le studentesse e gli studenti abbandonino quella passività che li fa affidare a ciò che è consolidato e dato per scontato, per dotarsi di senso critico, curiosità e voglia di scoprire se stesse/i e gli/le altri/e.
In conclusione, considerando l’emergenza climatica e il ruolo fondamentale che il settore agricolo ha nel determinarne l’andamento, crediamo che sia una grande mancanza di responsabilità la scarsa propensione dell’istituzione universitaria a formare persone che, al di fuori degli ambiti della ricerca, possano attivamente contribuire a realizzare molteplici tipi di agricoltura più sostenibili per la Terra e per le forme di vita che la popolano.
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