A 30 anni dalla caduta del muro di Berlino
“Nel 1989 pensavamo che l’Europa fosse il nostro avvenire. Oggi pensiamo di essere noi l’avvenire dell’Europa”.
Sono parole di Viktor Orban, premier ungherese e leader del maggiore partito ungherese, considerato l’esponente di spicco di quello che si definisce “sovranismo” e promotore della “democrazia illiberale”. Si tratta di espressioni e atteggiamenti diffusi e discussi in tutta Europa, con contenuti e intenti differenti accomunati dalla polemica continua. In questo caso però il sovranista pretende di rappresentare il vero “avvenire dell’Europa”.
Dobbiamo capire e spiegarci questa spregiudicata affermazione, anche di fronte al fatto che Orban e il suo partito, nonostante le esplicite critiche ufficiali da parte degli organi liberaldemocratici dell’Unione Europea, non sono stati allontanati dal Partito popolare europeo che è sostenitore convinto dell’Unione europea e della democrazia liberale.
Anzi Orban trova simpatizzanti nel partito cristiano sociale bavarese (Csu bavarese) e soprattutto presso la nuova formazione di destra Alternative fr Deutschland forte soprattutto nella ex Germania orientale.
Bjrn Hcke, un esponente radicale della Afd esulta perché gli orientali si stanno riprendendo “la loro rivoluzione del 1989” che non a caso allora aveva coniato lo slogan vincente Wir sind das Volk/Noi siamo il popolo. Ora è diventato lo slogan della Afd.
Per capire come si è arrivati a questa situazione, possiamo partire dalla prima parte della affermazione (riportata sopra) che certamente noi tutti condividiamo: “nel 1989 pensavamo che l’Europa fosse il nostro avvenire”. Ma – attenzione – sarebbe un errore pensare che per l’Europa non ci fosse un avvenire senza quanto è accaduto la sera del 9 novembre 1989, impropriamente definita “caduta del Muro”. In realtà si è trattato del suo attraversamento ‘legale’ nei punti di passaggio già esistenti senza alcun atto di violenza. Ma da mesi era già in atto nella Ddr quella che si sarebbe chiamata “rivoluzione democratica”. La classe politica tedesco-orientale non sapeva come comportarsi. (Telefonata a Mosca? Reparti di polizia pronti a chiudere i passaggi?).
D’altra parte, nell’Europa occidentale da decenni era viva e attiva la Comunità europea (chiamata più propriamente “mercato comune europeo ”) che stava programmando il suo avvenire politico. Quanto accadeva nella Ddr era una inattesa possibilità di fare un decisivo passo in avanti. Ma il passaggio davvero cruciale – altrettanto inatteso – era la riunificazione tedesca.
Sarà soltanto il trattato di Maastricht (1992/93) che razionalizzerà retrospettivamente per così dire e darà pieno senso politico all’evento del 9 novembre 1989 e soprattutto alla riunificazione tedesca ufficializzata solo nell’ottobre 1990. Ma storicamente parlando si tratta di due eventi da tenere distinti – come lo sono anche nella memoria personale di chi allora era semplice spettatore.
Come si è messo in moto questo processo? Che cosa rimane trent’anni dopo?
Dalla caduta del Muro alla riunificazione
Il discorso riporta indietro alle due Germanie, occidentale e orientale (Bundesrepublik e Ddr, Repubblica democratica tedesca) separate dal 1949, ma modo spettacolare con l’erezione del muro di Berlino (nell’agosto 1961). La sua cosiddetta caduta era stata preceduta nella Ddr da mesi di proteste politiche pubbliche e da fughe in massa – sotto il segno dell’efficacissimo slogan : Wir sind das Volk / noi siamo il popolo. (Ma c’era chi se ne stava riservatamente da parte – come la non più giovane trentacinquenne Angela Merkel…)
L’entusiasmo indicibile di quella notte del novembre 1989 (cui tutto il mondo ha assistito sugli schermi televisivi) non era segno di volontà di riunificazione nazionale ma di costituzione di un regime autonomo di libertà dai tratti costituzionali ancora tutti da discutere.
La riunificazione infatti presupponeva un mutamente geopolitico radicale in Europa che due anni dopo avrebbe travolto l’intero sistema sovietico che si estendeva da Berlino a Vladivostok.
In questa ottica la riunificazione tedesca non poteva considerarsi un evento semplicemente nazionale, ma europeo e mondiale. Di fatto è stato reso possibile dalla risoluta volontà americana del presidente Bush senior, dalla disponibilità del leader sovietico Gorbacev e dall’abilità del cancelliere Helmut Kohl che doveva fare i conti con la disapprovazione dei principali leader europei (Margaret Thatcher, Francois Mitterand e Giulio Andreotti).
Due punti vanno tenuti presenti : la volontà di Kohl di saldare definitivamente la Germania all’Occidente e all’Europa contro ogni tentazione isolazionista e neutralista (avanzata anche da sinistra in nome di una radicale neutralizzazione della Germania unita ). E il costo economico richiesto ai tedeschi (soprattutto da parte francese) di rinunciare al loro potente marco per creare una moneta comune europea considerata la condizione sine qua non della futura Europa politica. Oggi si dimentica con quanto timore e frustrazione la popolazione tedesca (per altro non consultata direttamente) ha accettato questa condizione. Ma questo spiega l’accanimento dei tedeschi di oggi a voler mantenere l’euro nella condizione in cui sono riusciti a istituzionalizzarlo e farlo funzionare a loro (legittimo) vantaggio.
Ripercorriamo alcuni passaggi del 1990. Helmut Kohl è colto di sorpresa – come tutti i politici europei – dagli eventi del 9 novembre 1989 a Berlino. Ma gli stessi tedeschi sono increduli e incerti nelle loro stesse emozioni. È Kohl che spinge risolutamente verso la riunificazione. In poche settimane riesce a controllare la situazione con grande abilità tattica, prendendo in contropiede i leader europei ostili.
Abbiamo già detto che l’obiettivo della unificazione sarebbe irraggiungibile senza il sostegno fermo degli Usa (Bush senior) da un lato e senza il consenso del presidente sovietico Gorbacev dall’altro. Gorbacev è un personaggio-chiave dell’intera vicenda, ma a suo modo tragico perché mette in atto una strategia che sarà fallimentare rispetto alle sue intenzioni originarie. Inizialmente è ostile verso la riunificazione tedesca, interpretando l’opinione prevalente della classe politica sovietica e di quella tedesco-orientale stordita per quanto sta accadendo. Trova facile consenso nel francese Mitterand e nell’inglese Thatcher. Ma poi intuisce che la partita va giocata con gli Usa e direttamente con la Germania. Con un brusco mutamento di atteggiamento, Gorbacev pensa di poter utilizzare la riunificazione tedesca, la sua definitiva e completa “occidentalizzazione” e il processo di democratizzazione dell’Europa orientale per dare impulso alla riforma del sistema sovietico nell’aspettativa che possa rimanere socialista. Nella “Casa comune europea” – è convinto – ci deve essere posto per tutti. Non sospetta che questa suggestiva utopia contribuirà al tracollo irreversibile del sistema comunista.
Da parte sua Helmut Kohl è sinceramente convinto di contribuire alla politica di rinnovamento e stabilizzazione di Gorbacev. Determinante a questo proposito è l’incontro faccia a faccia tra i due leader nel Caucaso nel luglio 1990 e gli accordi finanziari bilaterali ivi sottoscritti. La Germania mette in campo la sua forza economica, negoziale e la forza delle sue alleanze per ricreare una nuova relazione con l’Urss.
Ma il punto critico dell’intera vicenda rimane l’allargamento della Nato verso est. La Germania riesce a spuntare con il consenso di Gorbacev che la Nato arrivi sino ai confini della ex- Ddr. Non oltre. Sull’espansione oltre quei confini decideranno di fatto gli Stati Uniti o, se vogliamo, l’organismo politico militare che tiene unito l’Occidente: la Nato.
Le voci (anche tedesche) che invitano alla prudenza a proposito dell’espansione della Nato vengono zittite dietro l’euforia e la retorica delle libertà di cui possono godere tutte le nazioni ex-sovietiche. Negli anni successivi – con il sistema post-sovietico nel caos – l’allargamento della Nato ai paesi dell’Est europeo procederà quasi automaticamente insieme con l’appartenenza all’Ue. Si crea l’equivoco della necessaria coincidenza tra Ue e Nato.
La Germania nel frattempo, avendo accettato la rinuncia alla sua moneta, può diventare a pieno titolo una delle protagoniste dirette della costituzione dell’Unione europea, formalizzata nei Trattati di Maastricht che stabiliscono i criteri di appartenenza ed eventualmente di nuove adesioni. Ma per alcuni anni i costi dell’adesione o meglio dell’assorbimento della ex Ddr nella Bundesrepublik sono pesanti e condizionano duramente l’economia tedesca. Soltanto nel primo decennio degli anni duemila la Germania riprende vigore , diventando addirittura la nazione-leader in Europa, stilizzandosi come esempio di democrazia liberale ben funzionante , fondata sui due grandi partiti popolari (democristiano e socialdemocratico) anche se la loro cooperazione politica diretta nella forma della “Grande Coalizione” si alterna con altre formule politiche (con i Liberali e , a livello locale, con i Verdi).
A livello europeo l’ambizione della classe politica tedesca è quella di realizzare in positivo il monito di Thomas Mann di una “Germania europea, non di una Europa germanizzata” – anche se a molti partner europei questa non sembra essere la realtà effettiva. Per alcuni anni si parla più o meno polemicamente di “egemonia tedesca”. Ma la cancelliera Angela Merkel (al potere dal 2005 sino a oggi) definisce volentieri la Germania come “nazione di riferimento” evitando accuratamente e intenzionalmente il termine “egemonia” perché troppo carico di ambivalenze e sospetti.
Nel frattempo comunque la cancelliera raggiunge un prestigio internazionale senza precedenti. Mentre l’autorevole Economist conia la fortunata espressione di “egemonia riluttante”, alcuni politologi incominciano a parlare di una “egemonia responsabile della Germania potenza di centro”.
Ma si tratta di una egemonia vulnerabile, non soltanto a causa dell’inaspettata e poi impopolare decisione della Merkel nel 2015 di aprire i confini ai profughi e immigrati sollevando le ire delle nazioni vicine.
La situazione muta drasticamente in modo inatteso anche all’interno della Germania – in particolare nelle regioni orientali (un tempo appartenenti alla Ddr ) dove più che altrove si afferma il partito anti-sistema (Alternativa per la Germania ) che contesta alla classe politica e al governo il suo carattere nemico del “popolo” e critica la sua politica europea come antinazionale (Su questo tornerò più avanti).
La questione russo-ucraina
Una dimensione importante della nostra problematica è il nesso tra la riunificazione tedesca e la dissoluzione dell’Unione sovietica e dell’intero sistema dell’Europa orientale – dissoluzione che oggi Putin definisce senz’altro la peggiore catastrofe geopolitica messa in anno alla fine del XX secolo. E non pensa soltanto alla crisi tra Russia e Ucraina ma a quello che definisce senz’altro “il fallimento del liberalismo”.
Ecco che cosa ha detto in una intervista riportata anche dai nostri giornali “Che cosa sta succedendo in Occidente? Le élite al potere si sono allontanate dal popolo. C’è anche la cosiddetta idea liberale che ha esaurito il suo scopo. Quando il problema dell’immigrazione ha raggiunto un punto critico, molti nostri partner occidentali hanno ammesso che il multiculturalismo non è efficace e che gli interessi della popolazione locale vanno presi in considerazione. Al tempo stesso, chi si trova in difficoltà a causa dei problemi politici nel proprio Paese d’origine ha bisogno della nostra assistenza. È giusto, ma cosa ne è degli interessi della popolazione locale quando il numero di migranti diretti verso l’Europa occidentale è nell’ordine di migliaia o centinaia di migliaia?”.
Angela Merkel ha quindi commesso un errore? – chiedono gli intervistatori
“Un errore capitale. Si può criticare Trump per la sua intenzione di costruire un muro tra il Messico e gli Stati Uniti. Forse esagera. Ma almeno sta cercando una soluzione. Per quanto riguarda l’idea liberale, i suoi sostenitori non stanno facendo nulla. Dicono che tutto va bene. Ma è così? Sono seduti nei loro accoglienti uffici, mentre coloro che affrontano il problema non sono contenti. Lo stesso accade in Europa. L’idea liberale presuppone che non ci sia bisogno di fare nulla. I migranti possono uccidere, saccheggiare e stuprare impunemente perché i loro diritti devono essere tutelati. Quindi, l’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione. Riprendiamo i valori tradizionali”.(Non voglio insultare nessuno, perché siamo già stati condannati per la nostra presunta omofobia. Non abbiamo problemi con le persone Lgbt. Ma alcune cose ci sembrano eccessive. Ora c’è chi sostiene che i bambini possono svolgere cinque o sei ruoli di genere.”)
Torniamo alla questione ucraina. Lo storico Michael Stuermer ha scritto:“La Germania ha guadagnato la sua unità nazionale, la Russia ha perso l’Ucraina”. In questo modo un po’ provocatorio ha inteso mettere a fuoco un nesso tra due eventi a prima vista inconfrontabili. È vero che l’indipendenza della Ucraina risale al 24 agosto 1991 quindi ancora nel clima euforico del senso di liberazione collegato alla “rivoluzione democratica” tedesca del 1989/90. Ma affermare che allora la Russia “ha perso” l’Ucraina significa dire che il conflitto in atto oggi tra Kiev, Mosca e l’Europa ha sua radice nel 1989 e nelle sue immediate conseguenze.
In realtà all’inizio degli anni novanta si parlava di una “nuova architettura della sicurezza europea” le prospettive sembravano ben diverse e positive. Invece poco alla volta negli anni novanta è prevalsa l’erronea semplicistica convinzione della “vittoria dell’Occidente” , sino all’infelice tesi di Obama che declassava la Russia a “potenza regionale”, senza capire l’estrema rilevanza storica e strategica di questa grande e complessa presunta “regione”. L’ignoranza della storia è fatale nella politica americana.
Da parte sua la Germania era tutta concentrata sullo sviluppo dei suoi rapporti economici con le nuove nazioni euro-orientali. La crisi geopolitica quindi è rimasta latente sino all’esplosione brutale dei conflitti interni dell’Ucraina nel 2014 con l’annessione della Crimea alla Russia.
L’Ucraina è diventata più che mai il combattuto confine orientale dell’Europa, dell’Occidente. Ma il confine passa in realtà dentro le teste e il cuore degli ucraini che si dividono ferocemente. La Russia di Putin si sente circondata (a torto o a ragione) da paesi ostili e quindi si propone di ricuperare e rafforzare il suo spazio geopolitico. Soprattutto si sente tradita dall’Ucraina che “vuol passare con l’Occidente”. Da parte loro i paesi un tempo appartenenti all’area di influenza sovietica (in particolare Polonia e paesi Baltici) vedono in tutto questo un ritorno autoritario della Russia : molti parlano di “risovietizzazione” e/o ricomparsa della guerra fredda.
La Germania si è trovata impreparata dinanzi a questa crisi. Avrebbe voluto e vorrebbe tuttora mantenere buoni rapporti (innanzitutto economici) con entrambi gli Stati russo e ucraino. Si è impegnata intensamente nel Quartetto Normandia (Germania, Francia, Russia e Ucraina) sostenendo gli accordi di Minsk per ridurre le violenze militari da entrambi le parti e stipulare intese circa i rifornimenti energetici e la ripresa di scambi economici. Ma i punti politici cruciali – l’adesione / annessione della Crimea alla Russia, lo status di autonomia delle regioni ucraine secessioniste, la possibile entrata della Ucraina nella Nato – rimangono irrisolti. Anzi la politica attiva di Putin in Medio Oriente (Siria) e nel Mediterraneo dà al Cremlino che una statura che mette in risalto la marginalità e i limiti politico-strategici della “potenza di centro” Germania.
L’utopia di una sovranità condivisa
Il rilancio della sovranità europea per rifondare un’Europa sovrana, unita, democratica, dotata di autonomia strategica è stato l’obiettivo dichiarato del Trattato di Aquisgrana, sottoscritto dalla cancelliera Merkel e dal presidente francese Macron il 22 gennaio 2019. Questo ambizioso progetto di “assunzione della responsabilità di agire e parlare con una voce sola” a nome dell’Europa si rifà allo storico Trattato dell’Eliseo di riconciliazione e amicizia sottoscritto da Charles De Gaulle e Konrad Adenauer nel 1963. Ma quella è ormai una fase storica positivamente e definitivamente conclusa. Per questo già nel settembre 2017 Macron aveva espresso l’intenzione di inaugurare una nuova fase dei rapporti bilaterali franco-tedeschi al fine di fare fronte all’inattesa e pericolosa situazione che si stava delineando. Proponeva inoltre un cambiamento di politica economica a livello di Unione Europea a vantaggio anche degli altri membri.
In realtà la reazione tedesca sin dall’inizio è stata cauta e reticente innanzitutto di fronte alle proposte di modifiche dell’ordine economico finanziario rispetto allo status quo. I tedeschi non intendono imbarcarsi in un’”unione di trasferimenti”, ossia in un sistematico aiuto alle regioni e agli Stati in difficoltà o inadempienti nel contenimento del loro debito pubblico.
Non stupisce allora che i commenti della grande stampa tedesca siano stati scettici verso una presunta nuova opportunità di convergenza franco-tedesca per una guida comune dell’Europa – prospettiva che invece ha allarmato parecchi osservatori italiani.
Gran parte dei commentatori tedeschi ha ricordato la profonda e insuperata differenza nella visione di politica economica che caratterizza i due governi tedesco e francese, a dispetto delle enfatiche assicurazioni di convergenza. Il governo francese continuerà infatti a non rispettare il limite del 3% del rapporto deficit/Pil, soprattutto ora che deve venire incontro alle proteste sociali innescate dai “gilet gialli”, rimanendo quindi indifferente alle ripetute critiche dei tedeschi. E continuerà a considerare “un feticcio” (parola usata da Macron) l’ostilità di principio dei tedeschi verso ogni forma di indebitamento.
Nel frattempo si è fatta sempre più urgente la questione della difesa e della sicurezza militare europee sotto le pressioni del presidente degli Stati Uniti. Da un lato c’è l’atteggiamento diffidente sino all’ostilità, anche se ondivaga, di Donald Trump verso l’Europa e la stessa Nato. Trump non ama l’Europa ma ne ha strategicamente bisogno per tenere a bada la Russia; l’Europa resta per Washington terreno di manovra per gli equilibri geopolitici globali, in particolare nella speranza di frammentare l’Eurasia.
Facendo del continente un cuscinetto sotto il proprio controllo, gli Stati Uniti bloccano ogni possibile riavvicinamento tra Russia e Unione europea, e in particolare tra Russia e Germania. La visione politica trumpiana prevede l’esclusione dell’Europa come tale dai grandi confronti ed equilibri internazionali, da riservare alle superpotenze Stati Uniti, Russia e Cina. Ma anche la Russia di Putin ha interesse all’indebolimento dell’Europa. Non si astiene da azioni disgregatrici che trovano – tra l’altro – esplicito sostegno nei populisti tedeschi di Afd, che coltivano verso la Russia fantasie neobismarckiane (o meglio pseudobismarckiane).
Verso i tedeschi tuttavia Putin nutre una profonda ambivalenza: lo vede anche nel corso della lunga crisi con l’Ucraina, che è tutt’altro che conclusa. Parallelamente in Germania non mancano voci autorevoli a favore di un atteggiamento più ragionevole e comprensivo verso le esigenze russe. Nel frattempo Russia e Germania, dietro la facciata del disaccordo sulla Crimea e sull’Ucraina, continuano a intrattenere ottimi rapporti economici.
Su questo sfondo che senso ha la nuova “convergenza strategica” di Aquisgrana tra Germania e Francia in relazione alla sicurezza dell’Unione europea? Dal momento che le competenze dell’Unione si concentrano sul piano economico e politico in senso lato, le questioni specifiche della difesa sono rimaste nell’ambito della sovranità nazionale o delegate alla Nato. In concreto, “sicurezza” significa innanzitutto che il lungo confine europeo orientale deve essere dotato di strumenti adeguati di difesa. Recentemente, sotto la pressione di Trump, le nazioni europee hanno assicurato (Germania in testa) di aumentare le risorse a questo scopo. Ma la questione della sicurezza oggi non si misura più esclusivamente con il numero dei soldati e dei mezzi corazzati materialmente allineati sui confini. Si è spostata decisamente al livello degli schieramenti missilistici di medio e ampio raggio, dotati di armi nucleari.
Detto in modo semplice e brutale, in caso di autentica ostilità con rischio di guerra l’unico strumento credibile di autodifesa è la disponibilità della bomba atomica. È qui che diventano cruciali i rapporti tra francesi e tedeschi. In Germania si è riaccesa, anche al di fuori della ristretta cerchia degli esperti, la questione della necessità dell’armamento nucleare. Paradossalmente è diventata più acuta in concomitanza con il tema della dichiarata comune strategia militare franco-tedesca. Infatti la Francia, che dispone dell’atomica, non intende condividerne il controllo con nessuno, neppure con il partner tedesco: semplicemente assicura con solennità che si occuperà anche della difesa della Germania.
Ma al di là delle dichiarazioni ufficiali, questa garanzia non tranquillizza i tedeschi. È una situazione complicata che rispecchia la nota, tormentata volontà francese di mantenere un margine di autonomia rispetto alla Nato considerata troppo dipendente dagli Stati Uniti, mentre la Germania – almeno sino a oggi – è affidata interamente alla gestione Nato.
Dietro a questa problematica si profila un’altra questione importante : il riconoscimento della posizione e dell’eminente ruolo internazionale della Germania, che si traduce nella richiesta, da sempre avanzata dai governi tedeschi, di avere un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La Francia, che rifiuta di condividere il suo seggio con la Germania o di cederlo all’Unione europea in quanto tale, promette semplicemente di perorare la causa tedesca. Nel testo del Trattato di Aquisgrana si legge: “L’accoglienza della Bundesrepublik come membro permanente del Consiglio di sicurezza è una priorità della diplomazia franco-tedesca”. Ma per il momento gli esperti dell’Onu dichiarano che questa possibilità è fuori dalla realtà.
È plausibile adesso una specie di egemonia congiunta franco-tedesca? Nonostante le reciproche differenze e diffidenze? Questo spiegherebbe la nuova enfasi di Angela Merkel e di Emmanuel Macron nell’insistere sulla stretta cooperazione di Germania e Francia come garanzia per una nuova fase di rilancio europeo. Sino a delineare una sorta di neodirigismo statale per cui “politica ed economica devono lavorare a stretto contatto”. È un’ipotesi arrischiata, ma in alternativa se i partiti sovranisti nella nuova assemblea di Strasburgo fossero in grado di condizionare sistematicamente ciò che resta dell’Unione europea, si profilerebbe una prospettiva preoccupante. Un’Unione politicamente paralizzata, una Francia in difficoltà politiche interne potrebbero spingere la Germania verso una sottile deresponsabilizzazione nei confronti della stessa Ue – alla ricerca di altre sfere di influenza. Sarebbe la peggiore delle ipotesi per il vecchio continente.
Alternative für Deutschland
“Il nostro è il tempo dell’esasperazione intellettuale. Noi vogliamo incendiare i cuori, creare movimento, porre questioni decisive in modo nuovo, con risultati politici. In noi si sommano l’inquietudine intellettuale, il furor teutonicus dormiente, l’originaria febbre tedesca eternamente non civilizzabile che ci irradia dalle antiche foreste germaniche come dalle cattedrali gotiche. I nostri avversari lo sanno e hanno paura”.
Sono parole di due esponenti della “nuova destra” tedesca, identificata nella Alternative für Deutschland (Afd). Si tratta di fantasie di intellettuali estetizzanti o minacce politiche reali dalle conseguenze imprevedibili e inaccettabili in un sistema democratico?
Il “populismo di destra” è riuscito a condizionare i termini del dibattito politico pubblico – irritando e preoccupando la cultura liberal- democratica ancora prevalente. Sono in allerta le istituzioni incaricate della “Difesa della Costituzione” , preoccupate che si verifichino comportamenti lesivi della democrazia. Molti parlano di “sindrome di Weimar”. Ma è credibile oggi il pericolo di una crisi di sistema di tipo weimariano?
In realtà l’Afd ha portato alla luce, esasperandoli, aspetti critici e problematici del sistema che erano stati rimossi o erano rimasti latenti – soprattutto nelle regioni orientali della ex-Ddr. Ha accelerato l’arretramento elettorale già da tempo in atto dei tradizionali “partiti popolari”, in particolare della socialdemocrazia. Ha colpito al cuore la strategia e il prestigio politico personale di Angela Merkel, mettendo in moto nell’Unione cristiano-democratica (Cdu) un processo riflessivo dalle conseguenze ancora incerte.
Forte del suo successo elettorale l’Afd – rappresentata nel Bundestag con il 12,6% e presente in tutti i parlamenti regionali – è decisa ad affermarsi nelle prossime elezioni europee. Rimprovera al governo tedesco di avere sacrificato gran parte della sovranità della Germania all’Ue, parla di una possibile uscita dall’euro e di una reintroduzione del marco. Ma su questi punti le posizioni sono ancora molto incerte.L’unico criterio fermo è che la Germania non deve rinunciare alla sua posizione economicamente preminente e non deve assumersi alcun onere di sostegno di altri paesi europei inadempienti e inaffidabili, Italia in testa. E non deve concedere nulla alla Francia di Macron.
La nuova destra ha sottratto alla sinistra il monopolio della critica al sistema esistente, rovesciandone il senso. Afferma di considerare come propri nemici gli stessi avversari della sinistra radicale: il neoliberalismo finanziario-capitalistico, la globalizzazione eccetera. Quando entrano in gioco i diritti della persona o i criteri dell’etica familiare l’Afd si colloca su posizioni nettamente tradizionaliste.
Con questa impostazione intende condurre una vera e propria “battaglia culturale” costringendo i “partitit popolari” Cdu e Csu a rinnovare la propria cultura politica e un proprio “conservatorismo”. Ma è la Afd a considerarsi il vero “partito del popolo/ Volkspartei”.
Contro questa nuova destra ci sono segni di resistenza e di antagonismo nella “società politica” – anche in forma politica. Al primo posto ci sono i Verdi. La socialdemocrazia tiene testa faticosamente. La sinistra culturale è sconcertata ma sempre attiva.
Per rimontare questa situazione tuttavia non basta denunciare le ambiguità di alcuni esponenti di Afd nei confronti del nazionalsocialismo storico o la presenza nel movimento di personaggi con simpatie neonaziste. Non basta trattare come “roba vecchia” i discorsi sulla “rivoluzione conservatrice” storica degli anni Venti e Trenta, rilanciata dalla AD. Non basta contestare energicamente il presunto “culto della colpa” che caratterizzerebbe lo processo di “elaborazione critica del passato” compiuto da buona parte della società tedesca nei decenni scorsi. Ci si deve chiedere perché il concetto di Volk (popolo) e il suo qualificativo völkisch, inteso alla maniera Afd , hanno guadagnato attrattività.
Particolarmente difficile è la posizione dei sindacati, che devono fare i conti con l’influenza che l’Afd esercita anche su alcuni strati di lavoratori, specialmente nelle regioni orientali, che soffrono la svalorizzazione della propria biografia, del proprio stile di vita, della propria posizione lavorativa. Su questa percezione (definita “culturalizzazione della diseguaglianza”) lavora la propaganda del populismo di destra, che insiste sulla priorità assoluta dell’identità e dell’omogeneità degli appartenenti al “popolo tedesco” rispetto a ogni altra distinzione.
Con la richiesta del blocco totale dell’immigrazione, con l’insofferenza contro gli stranieri, l’Afd diffonde la convinzione che sia in atto una grave minaccia all’integrità del popolo tedesco, concepito come un’indiscutibile omogeneità storica etnoculturale. Non si parla di “razza” alla maniera nazista ma di “etnopluralismo”, che in linea teorica riconosce autonomia e pari dignità a tutte le etnie/culture come tali – purché rimangano confinate nel loro spazio geografico ed etnoculturale. Ma rimane il fatto che per la nuova destra non è la cittadinanza di Stato a definire il popolo tedesco – come vuole la Costituzione – ma sono i criteri d’appartenenza al popolo , criteri völkisch quali sono definiti dalla stessa destra.
Se questa concezione e mentalità, che è tipica del sovranismo, dovesse prevalere a livello europeo, portando i partiti sovranisti a condizionare la nuova assemblea di Strasburgo, la situazione politica diventerebbe ingestibile, non solo a Bruxelles ma anche a Berlino.
In una Ue politicamente paralizzata dai sovranismi , la Germania potrebbe essere tentata di ripiegare su se stessa, con una lenta deresponsabilizzazione nei confronti dell’Unione europea come tale, alla ricerca di altre sfere di influenza. Sarebbe la peggiore delle prospettive per l’intero continente.
Che cosa resta?
In questo clima, che cosa resta della Germania “potenza civile” (Zivilmacht) fondata sulla “società civile” (Zivilgesellschaft), che sino a pochi anni fa sembrava offrire la base solida di una Germania che presumeva di essere “nazione di orientamento” per i membri dell’Unione europea? Presupposto importante di quella concezione era l’elaborazione critica del passato nazionalsocialista e l’idea di una religione civile basata sulla memoria dell’Olocausto, che a sua volta fondava l’idea del patriottismo costituzionale. Sono rimaste esemplari le tesi enunciate da Jürgen Habermas nel dibattito degli storici (Historikerstreit) dell’ormai lontanissimo 1986:
“L’unico patriottismo che non ci allontana dall’Occidente è un patriottismo della Costituzione. Una convinta adesione ai principi universali della Costituzione si è purtroppo potuta formare nella nazione civile [Kulturnation] dei tedeschi soltanto dopo e attraverso Auschwitz. Chi vuole impedirci di arrossire di vergogna per questo fatto con un’espressione vuota come “ossessione della colpa”, chi vuol richiamare i tedeschi a una forma convenzionale della loro identità nazionale, distrugge l’unica base attendibile del nostro legame con l’Occidente.”
Ebbene oggi questo discorso è frontalmente respinto dalla nuova destra, cominciando dal rifiuto della “cultura della colpa”.
Sulla rivista più rappresentativa dell’Afd, “Junge Freiheit”, possiamo leggere l’esatto contrario delle tesi habermasiane: “Il più potente demone di oggi è la religione civile in cui Auschwitz prende il posto di Dio”. Vengono proclamati come antidoti l’orgoglio, il sovranismo nazionale, l’antieuropeismo, l’intransigente opposizione a ogni forma di immigrazione, vissuta e presentata come minaccia all’integrità stessa della nazione tedesca, come stravolgimento dell’essere del popolo tedesco, come sua sostituzione (Umvolkung). È il tedesco contro il non tedesco – come qualcuno non esita a dire.
Il successo dell’Afd nei “Länder” orientali
Uno dei punti più importanti per spiegare il successo di Alternative für Deutschland è il consenso da essa ottenuto nelle regioni orientali, quelle dell’ex Germania comunista. Naturalmente in primo piano ci sono i numeri che indicano in modo inequivocabile e impietoso le differenze economiche di reddito tra aree orientali e aree occidentali, a tutti i livelli e in quasi tutti i Länder.
A questo si aggiungono le differenze della struttura sociale tra le due Germanie che negli ultimi decenni non si sono affatto attenuate: infatti la riunificazione, in seguito all’emigrazione all’Ovest dei ceti professionalmente qualificati (e di un numero elevato di donne con buona formazione culturale), non ha fatto che accentuare la mancanza di classi medie che aveva caratterizzato la Ddr.
Ma ci sono altre ragioni storico-culturali che possono spiegare i diversi comportamenti a est e a ovest. Ci si chiesti ad esempio perché in Occidente coloro che nelle regioni orientali sono ostili a ogni forma di immigrazione vengono considerati senz’altro di destra, contrariamente a quanto pensano i diretti interessati. Chi percepisce l’Est come una “strana Germania nera” deviante verso destra (“fascista”) semplicemente perché si oppone alla politica di apertura ai profughi deve interrogarsi sul perché gli orientali “non provano alcun senso di colpa per questo loro atteggiamento”. In estrema sintesi, si dà la seguente spiegazione: gli orientali hanno in qualche modo interiorizzato la dottrina statale pluridecennale della Ddr che considerava l’Occidente innanzitutto come capitalista e fascista e quindi l’Oriente socialista per principio antifascista. La Ddr, che non si è mai assolutamente ritenuta erede del Terzo Reich, ha fatto dell’antifascismo il suo mito fondante. Il nazionalsocialismo era considerato una caratteristica del capitalismo occidentale, insieme con il suo liberalismo.
Per questo anche oggi le raccomandazioni da parte del liberalismo di sinistra occidentale sono vissute come fuori luogo: per i tedeschi orientali sentire elencare i pericoli del patrimonio di idee di destra è come raccontare a un non fumatore militante i danni da nicotina – è stato detto. L’ammonimento costante nei confronti di Afd (o di Pegida) che porterebbero con sé una banalizzazione del periodo nazista non ha alcuna efficacia. Di conseguenza i tedeschi orientali difendono con decisione le loro posizioni. Non si sentono partecipi delle autocritiche e della contrizione dei tedeschi occidentali. Per questo gli abitanti di Dresda a ogni ricordo dei bombardamenti della guerra vivono un intenso sentimento di lutto collettivo che è assente negli abitanti di Amburgo o Colonia. Le narrazioni delle vittime e i miti fondativi sono duri a morire e, anche decenni dopo la caduta della cortina di ferro, i loro effetti psicologici di massa permangono.
Il conflitto Est-Ovest in Europa si è giocato (con intensità e varianti diverse per l’esplicita divisione della nazione) anche in Germania. Non è stata la crisi dei profughi che ha prodotto la divisione tra Est e Ovest, ma l’ha resa particolarmente visibile. Se l’ex Germania orientale fosse oggi uno Stato indipendente avrebbe presumibilmente una politica governativa simile a quella della Polonia e dell’Ungheria, che ha come obiettivi la difesa dei confini, il patriottismo, l’omogeneità etnica e la sovranità nazionale.
A quasi trent’anni dalla riunificazione che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi nazionali, molti tedeschi orientali si sentono ancora fuori posto. Si considerano ancora una volta le vittime di quelli “là sopra” e non a caso hanno ripreso (e rivendicato) lo slogan delle proteste del 1989-90 contro il governo della Ddr: “Noi siamo il popolo” (Wir sind das Volk).
L’accusa di essere di destra il tedesco dell’Est la conosce molto bene dal tempo della Ddr. Non adeguarsi significava essere marchiati come fascisti. Perché anche nella democrazia il non adeguarsi equivale a essere di destra gli risulta incomprensibile. L’orientale, nella crisi globalizzata dei profughi, crede con la sua critica veemente di essere a favore della stabilità dello Stato, che l’occidentale mette in discussione con la sua giustificata ma esasperata elaborazione del passato e con la sua etica dei principi. L’occidentale invece crede di conservare umanità e benevolenza mettendo davanti agli occhi del concittadino orientale lo specchio della propria elaborazione del passato. La divisione tra Est e Ovest rivive segretamente nei due differenti miti fondativi: ancora oggi l’Occidente è responsabile del Terzo Reich mentre l’Oriente ha proclamato dal 1949 l’antifascismo come dato di fatto immutabile.
A questo punto riporto – senza ulteriore commento – l’opinione di uno studioso vicino alle posizioni dell’Afd (Peter Feist, presidente del Centro di formazione Christian Wolff ). Alla domanda se sia vero che i cittadini dell’Est votano Afd perché sono meno abituati alla cultura democratica rispetto all’Occidente, risponde che ciò è del tutto falso. I cittadini dell’Est hanno un altro approccio alla democrazia, cioè l’approccio di chi per la democrazia ha combattuto e nel 1989 è sceso in piazza. Non si capisce adesso perché per essere democratici si debbano amare gli immigrati che sono parcheggiati sotto casa e tollerare i prepotenti al governo.
“Qui il popolo è ancora relativamente omogeneo – scrive – non è stato distrutto dalla rieducazione americana ed è portatore di un tradizionale nazionalismo che rivendica la propria sovranità nel proprio paese […] Perché dopo tre generazioni i turchi si sentono ancora turchi e non si vogliono integrare? Nell’Est nessuno vuole che si formino delle società parallele come già sono diffuse nell’Ovest. Tutto questo porta verso una rivolta sociale strutturata quale è quella della Afd”.
Appunti dopo le elezioni nei Laender Sassonia e Brandeburgo 1 dicembre 2019
È singolare il clima postelettorale dopo le elezioni del dicembre in Sassonia e Brandeburgo. Si dichiarano soddisfatti sia i “partiti popolari” tradizionali (Cdu e Spd) sia la nuova forza di destra Alternative fr Deutschland. I Verdi che erano dati come i nuovi vincenti dell’area “liberale” ottengono un discreto risultato ma inferiore alle aspettative.
L’Unione democristiana e la socialdemocrazia sono soddisfatte perché rimangono “i partiti popolari” più votati, rispettivamente al primo posto in Sassonia e in Brandeburgo, nonostante le sensibili perdite di consensi. La Cdu è al 32,8% (contro il 39.45% precedente) e la Spd 26.0% (rispetto al precedente 31,9 %).
L’Alternative für Deutschland sperava in un successo maggiore, ma si piazza al secondo posto sia in Sassonia 27.8 % (con un balzo in avanti rispetto al precedente 9.75%) e sia nel Brandeburgo con 23,5% (rispetto al precedente 12,25%).
È il secondo partito di quella che era la vecchia Ddr. Viene votata da un quarto degli elettori orientali. Ci ritroviamo a una paradossale ricomparsa delle “due Germanie”?
In realtà l’identità politica dell’Afd è divisa tra i radicali antagonisti anti-sistema (con qualche simpatizzante neonazista) e quelli che si proclamano il vero partito popolare ‘ borghese’ e ‘conservatore’ quale hanno cessato di essere sia il partito cristiano democratico nazionale sia quello cristiano sociale bavarese. Al momento entrambi questi partiti respingono ogni rapporto con l’Afd.
In realtà mai la classe politica tedesca si è trovata così si divisa e insicura sul da farsi.