Nato a Cerignola

Estate
Sono nato e fino a diciotto anni ho vissuto a Cerignola, nel foggiano, dove l’estate scorsa, stipati in un furgone, dodici braccianti africani venuti a rubarci il lavoro, sono morti in uno scontro frontale con un tir.
Ammassati come bestiame nel retro di furgoni spesso senza sedili e finestrini, con temperature che sfiorano i quaranta gradi, vanno a raccogliere i pomodori per poche decine di euro al giorno, parte dei quali già reinvestiti per acquistare il passaggio nel furgone dove moriranno.
Alle scuole superiori, verso i diciassette anni, noi che avevamo la fortuna di studiare, avevamo l’usanza di provare per qualche giorno a raccogliere pure noi i pomodori.
Era una specie di prova di iniziazione ma anche un espediente per racimolare dei soldi per poterci pagare delle vacanze indipendenti dalle famiglie.
Si trattava di alzarsi alle quattro di notte, quand’era ancora buio, e andare in piazza mimetizzandosi con gli altri braccianti in cerca della giornata, sperando di essere selezionati, nonostante le nostre braccia gracili. Da sei a otto ore di lavoro che non passavano mai, sotto il sole violento di agosto. Ricordo che le paghe erano differenziate, le donne prendevano meno anche se lavoravano di più, perché la notte avevano anche preparato il pranzo per mariti efigli.
Era la fine degli anni ottanta, gli immigrati non venivano dall’Africa, ma al massimo dalla Basilicata, e quindi dovevano anche sorbirsi un’oretta di viaggio in più all’andata e al ritorno, il tuttoper 45milalire. Un sacco di soldi per noi diciassettenni senza paghetta, anche se pochi di noi superavano la prima giornata. Di solito, tornati a casa con la schiena spezzata e le spalle ustionate, ci veniva il febbrone e pure il vomito.
Si partiva tutti allineati e chi rimaneva dietro veniva insultato e umiliato dal caporale, in alcuni casi cacciato. Si avanzava in coppia, con la cassa al centro da riempire che doveva viaggiare lungola fila. Io ero sistematicamente in ritardo e ciò danneggiava anche il mio compagno di cassetta che aveva tre o quattro anni più di me, cioè aveva circa vent’anni, ma all’epoca mi sembravano tantissimi. Cercava di coprirmi, lavorando di più. Praticamente quella cassetta la riempiva lui al 70%.
Alla fine di quella prima giornata gli chiesi scusa per averlo messo in quella situazione e gli proposi di prendersi parte della mia paga per compensare. Lui rinunciò, dicendomi che i lavoratori devono aiutarsi tra loro, così gli aveva insegnato il nonno che aveva conosciuto di persona Peppino Di Vittorio.
Imiei primi parapedonali
Di solito quando arriva il tassista che mi porterà all’aeroporto, esordisco trafelato con un “Buongiorno, siamo in ritardissimo”.
Mi viene fuori istintivamente la prima persona plurale perché forse, inconsciamente, cerco la complicità di quel signore che non ha alcuna responsabilità di tale ritardo, che è solo e soltanto mio. Probabilmente è un rituale diffuso a cui ogni tassista è più omeno abituato, anche se ognuno reagisce a modo suo.
Il tassista che mi è capitato stamattina, un signore sulla sessantina, invece di rispondermi come probabilmente avrebbe fatto qualche collega più burbero, con qualcosa del tipo “La sveglia mezz’ora prima no?”, si è mostrato solidale, e ha cominciato a condividere a voce alta ragionamenti sul percorso più veloce e meno trafficato.
In realtà sono partito con inusuale anticipo, anche perché ero sveglio da molto prima che suonasse la sveglia. Anzi, mi sa che non ho proprio chiuso occhio per l’ansia, dovuta all’uscita imminente del mio ultimo film.
Perché si sa: la gente va molto meno al cinema, ci sono le serie tv, l’età media degli spettatori delle sale d’essai aumenta, non c’è il ricambio generazionale, le sale chiudono, quelle che non chiudono puntano sulle commedie o comunque su titoli che abbiano interpreti popolari… quindi io non dormo perché Selfie non è una commedia e non ha attori popolari. È un film dal vero di quelli che normalmente ci si mette tre anni a farli. Io quando mi impegno, ce ne metto anche di più.
Metterci degli anni per fare il tuo film, metterci tutto te stesso, lottare ogni giorno per difendere le tue idee, come se quel film fosse la cosa più importante della tua vita e della vita di persone che ti stanno vicine, familiari, amici, e, perché no, anche vicini di casa e conoscenti che incontri per strada una volta all’anno e che ti raccontano di matrimoni, figli, divorzi, lutti, lauree, nuovi lavori, viaggi, progetti… mentre tu fai di sì con la testa mentre staipensando soltanto al tuo film, vivere così tre anni, finire questo benedetto film, vederlo finalmente annunciato in uscita, e poi assistere impotente al suo smontaggio, dopo pochi giorni, è davvero una sensazione luttuosa che i miei colleghi conoscono e temono.
Un sentimento che mescola delusione, frustrazione, senso di sconfitta e fallimento. Nulla ha senso: depressione. Addio mondo crudele, non mi meriti.
Incolonnati nel traffico, con lo sguardo addormentato che si perde oltre il finestrino, percepisco qualcosa di familiare. Metto meglio a fuoco e scopro che, a pochi metri da me, c’è proprio lui, il mio film. O meglio, una coppia di parapedonali che lo pubblicizzano. È la primavolta che per un mio film vengono scomodati dei parapedonali.
Il tassista, si accorge della mia espressione ridestata e io sento di dovergli una spiegazione: quello è il mio film. “Ah lei fa il regista?”, “Sì – rispondo, affrettandomi a mettere le mani avanti – ma di documentari, ma non quelli sulla natura che fanno in televisione… cioè film diciamo normali, come gli altri, solo che la storia è vera e le persone che la interpretano pure”. “Cioè film che se vedono al cinema?” mi chiede “Sì” rispondo io, “E ne ha già fatti altri oltre a questo?” aggiunge, immagino percapire se li conosce. “Si, ne ho fatti altri due usciti al cinema” gli rispondo, ma senza aggiungere i relativi titoli, come per volermi risparmiare l’umiliazione di lui che scuote la testa, e, alzando le spalle, con tutto il tatto possibile, cercando di non ferirmi, mi risponde che proprio no, mai visti o sentiti…Ma, inesorabile, la domanda arriva: “E come se intitolavano?”, “L’Orchestra di Piazza Vittorio e Le cose belle”, rispondo io, e lui scuote la testa, e, alzando le spalle, con tutto il tatto possibile, cercando di non ferirmi, mi risponde che propriono, mai visti o sentiti.
“E questo di che parla?” mi chiede. Non ce la faccio a raccontagli di cosa parla, però ho una curiosità e, con prepotenza, invece di rispondere alla sua domanda, gliene faccio una io. Gli chiedo se lui che sta sempre in giro in mezzo al traffico, ha visto altri para pedonali di Selfie. Lui scuote nuovamente la testa e alza le spalle, come giustificandosi, precisando che non vuole assolutamente dare la colpa al manifesto, che anzi è tutto colorato e attira l’attenzione. È che lui magari, dalla sua posizione, guarda più quelli che stanno in alto, non questi “Come se chiamano?”, “Parapedonali” gli rispondo io. Però, ora che se li è registrati mentalmente, mi rassicura, ci farà più attenzione. Ma io a mia volta lo giustifico, gli do ragione, spiegandogli che gli addetti di marketing lo ripetono da anni che i parapedonali non sono efficaci, non funzionano, non portano gente al cinema, insomma non servono a niente. Ma il distributore c’ha voluto provare comunque.
Lui s’indigna, come se gli avessi parlato male di una cosa che ormai gli appartiene, di una cosa che si capisce che è costata fatica e merita rispetto, come il cibo che talvolta avanza in tavola intatto, che non è giusto buttare. E così, come se fosse iniziata una caccia al tesoro, si ostina a trovarne altri, cosa non facile, perché non ne hanno affissi tantissimi, visto il tipo di film. Ma dopo un po’di minuti, che m’ero quasi appisolato, sento un sussulto “Ecconen’altri due” mi fa, individuandone un’altra coppia sul marciapiede opposto a quello della nostra direzione. “Glielo dicevo che c’hanno un colore sgargiante, se notano” mi ripete, come per incoraggiarmi e darmi soddisfazione…
Poi aggiunge: “Chissà quanti sacrifici hanno fatto i suoi genitori per farla studiare e diventà regista. Per carità, ’sti esperti del marketing c’avranno pure ragione, sicuramente sì, quello è il loro lavoro, io non gli posso insegnà niente su quello, come loro non me ponno insegnà come se fa er tassinaro, però, io la vedo da un altro punto de vista… Se avessi un figlio regista e mentre giro per strada vedo i manifesti del film suo, me se riempirebbe er core de orgoglio. Ma sai che soddisfazione per i suoi genitori. Oh, mi perdoni, ce li ha ancora i genitori? Sono ancora viventi?”, “Per fortuna sì – lo rassicuro io –, certo con un bel po’ di acciacchi”. “E li hanno visti questi manifesti?” mi chiede lui, come se fosse una domanda retorica, superflua. “Beh, effettivamente no – confesso io, perché li hanno affissi solo a Roma e loro abitano in Basilicata”. “Ma davero nun l’hanno visti?! – commenta sorpreso e preoccupato per poi, dopo qualche secondo di silenzio, esclamare con tono risoluto – a che ora c’ha il volo?” Io gli rispondo che, stranamente, siamo abbastanza in anticipo. Allora lui repentinamente rallenta e mette la freccia, provocando un’immediata protesta dei clacson che ci seguono, a cui reagisce con un’imprecazione sommessa, tra sé e sé, mentre, fregandosene, fa inversione e torna verso i due parapedonali che avevamo appena scoperto. Accosta e spegne il motore. “C’ha la fotocamera nel cellulare? “mi chiede. “E certo – rispondo – ci abbiamo girato tutto il film col cellulare…” “Le dispiace se le faccio una foto? – mi fa – Ma mi deve promettere che la spedisce ai suoi genitori”
Parapedonali2
Così, inesorabile, è arrivato il tanto temuto momento: fra pochissimi giorni i parapedonali di Selfie, i miei primi, amatissimi parapedonali, saranno smontati.
Mi rimarrà questa foto, scattata su sollecitazione del tassista. Penso che ne farò un ingrandimento, la incornicerò e l’appenderò alla parete.
Fra venticinque anni, mio figlio – che ora ne ha tre e mezzo – se la ritroverà tra le mani ingiallita, sotto il vetro impolverato e un po’ sfregiato, quando un suo amico lo starà aiutando a sgomberare la cantina e gli chiederà che roba è…lui potrà riguardarla dopo chissà quanto tempo e commentare trafelato, con un’espressione sorridente a metà tra affetto e commiserazione, che: “Lo sai come è fatto mio padre, accumula un sacco di cose, di quando faceva il regista di documentari, e non vuole mai buttare nulla”.
Poi, asciugandosi con la maglia il sudore della fronte, in quel giorno parecchio afoso, mettendo meglio a fuoco la foto e alzando le spalle, dirà al suo amico: “Sì, effettivamente…papà qui, com’era più giovane e magro”.
E gli spiegherà meglio la storia di quello scatto, di come era nato, riassumendogli sbrigativamente quel racconto del tassista, che da bambino chissà quante volte si era dovuto sorbire.
E si ricorderà dei suoi nonni, che non ci saranno più, raccontando che lui si chiama Elio come il padre di suo padre.
E si ricorderà delle sale cinematografiche, che pure non ci saranno più, e, appunto, dei tassisti, che pure non ci saranno più.
Racconterà al suo amico che lui se le ricorda le sale cinematografiche, era piccolo ma se le ricorda benissimo.
Erano dei saloni, alcuni molto grandi, altri più piccoli, tipo stanzoni, dove c’erano persone sedute una accanto all’altra e vedevano ifilm su uno schermo grande, al buio. E ogni volta che lui parlava adalta voce i genitori gli facevano “shhh” col dito sulle labbra.Suo padre la gestiva una specie di sala e spesso lo portava nellastanzetta dove c’era il proiettore, la cabina la chiamavano, e dalì usciva un fascio di luce che proiettava le immagini sulloschermo.
Eracconterà al suo amico che si ricorda benissimo anche di quando lemacchine potevano muoversi solo se c’era uno che le guidava… ec’erano quelle macchine bianche, che a guidarle erano appunto itassisti, quei signori che ogni volta che vi saliva a bordo con mammae papà, loro gli chiedevano cosa volesse fare da grande. E luirispondeva: “Il dottore, per curare la bua ai nonni”.
Ecco unodi loro aveva scattato quella foto…
L’amico a quel punto gli chiederà se poi il padre l’aveva spedita quella foto ai genitori, come da promessa…
Sì, certo, l’ho subito mandata la foto ai nonni di mio figlio. Papà,orgoglioso, l’ha subito girata a tutti gli amici e a tutti i parenti fino alla settima generazione. Mia madre, che non vede più bene, era pure lei entusiasta e ha detto che è bellissima questa foto, ed è contentissima per me, anche se nella foto sembro un po’ sciupato. E poi ha aggiunto: “Però ti potevi laureare”.
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Se avessi tempo ed energia, li fotograferei tutti i miei bellissimi 95 parapedonali sparsi per Roma, prima che li smontino. Se potessi me li porterei tutti nella mia stanza e li interrogherei, uno per uno.Ognuno di loro in questi giorni ha visto e sentito storie diverse:genitori in ritardissimo che accompagnano i figli a scuola, fidanzati che si lasciano e poi si baciano, adolescenti che fanno sega al liceo e ci si appoggiano per fumare la loro sigaretta segreta, impiegati in pausa pranzo che chiamano le mogli al cellulare per dire che il loro capo è uno stronzo, lavavetri che sognano che i loro figli un giorno possano diventare non dico impiegati ma almeno operai. Suore che si fanno un selfie.
Compleanno
Oggi è il mio compleanno e, ripensando alla mia vita, mi è tornata in mente la Calabria.
Mia madre è nata a Roccella Jonica, da ragazza lavorava in un bar che gestiva con altri fratelli a Locri. Lì la conobbe mio padre, che veniva dalla Basilicata. Lei aveva compiuto da poco vent’anni, lui un anno di più, aveva da poco vinto il concorso come agente penitenziario e l’avevano trasferito in Calabria. Nei racconti dei miei e nei ricordi di me bambino, ritornano spesso paesi della Locride come Gioiosa, Bovalino, Siderno, Caulonia, Riace, Monasterace e della zona di Catanzaro e Crotone, come Guardavalle, Sellia Marina,Cropani, Copanello, Botricello, Roccabernarda, San Mauro Marchesato, Isola di Capo Rizzuto.
Mio nonno materno faceva il maestro di musica. Approfittando del servizio di leva a Roma che all’epoca durava tre anni, era riuscito a diplomarsi al Conservatorio di Santa Cecilia; tornato a casa era diventato direttore di varie bande cittadine e si spostava parecchio tra i paesi limitrofi. Insegnava gratis, perché la maggioranza delle famiglie all’epoca non aveva soldi per pagare lezioni di musica ai figli.
In compenso lo invitavano spesso a pranzo o cena e, se non altro,considerando la somma degli allievi, mio nonno, con al suo seguito mia nonna e, a turno, alcuni dei i suoi sei figli, non hanno mai avuto problemi alimentari.
Ho parenti e amici sparsi per tutta la Calabria, da quando sono nato ci vado in vacanza l’estate e non solo. Ora purtroppo per pochi giorni all’anno, ma da bambino era tutto un lunghissimo bagno che iniziava il giorno dopo la fine della scuola e finiva quasi tre mesi dopo,alla vigilia della riapertura.
A fine giugno, sulla Fiat 850 (poi fu il turno della 127e poi della Ritmo) mio padre caricava me, mia sorella, mia madre e un metro di merce stipata sul portapacchi e, dopo viaggi che duravano dieci ore (alla media di 70km orari, mentre chiunque ci sorpassava ci suonava il clacson per indicarci le ruote sgonfie) ci lasciava al mare. La seconda metà di agosto, che aveva due settimane di ferie, ci raggiungeva e poi tornavamo tutti insieme a Cerignola.
Tutti i weekend durante l’anno scolastico li trascorrevamo a Rapolla (Pz), a casa dei nonni paterni, anche quando per via del terremoto furono alloggiati prima nelle aule della scuola e poi in alloggi provvisori nell’attesa, durata anni, che ristrutturassero la casa semi crollata. Ma appena possibile tornavamo in Calabria, spesso anche per le vacanze di Pasqua e Natale.
La Calabria, così come la Basilicata, è stata per anni la mia seconda casa. La amo. La detesto.
Non sono ricco, ma, anche grazie al “lavoro” che faccio, ho avuto la fortuna di viaggiare molto e posso dire, penso a ragion veduta, chela Calabria sia una delle terre più belle del pianeta. Questa è la parte che amo. Così come amo la sua gente, la maggioranza, quella che, nonostante tutto, resiste, ogni giorno, ingoiando le umiliazioni e, talvolta, rischiando la vita per protestare. Gente lasciata sola contro un potere che in molti hanno interesse a dimostrare invincibile.
La parte che non amo è appunto quella legata a questo potere, che, a parlarne, si rischia di scadere nel didascalico, nell’ovvio. Perché si tratta di qualcosa che ci viene insegnata appena nasciamo, anzi,che sembra già presente nel Dna di noi meridionali, che riguarda una realtà che c’è da sempre, con le sue cause storiche, ataviche e che tutti diamo per scontato che non cambierà mai.
Lo sanno tutti, anche i bambini, che ogni singolo metro quadrato di questa, come di altre regioni del nostro meridione, è dominato da una cosca. I capi di queste cosche, negli ultimi decenni, sono riusciti a fare anche più danni di quelli provocati dai propri predecessori, nei molti anni prima, danni irreparabili e inestimabili che ricadono sugli affiliati stessi, sulle proprie famiglie, sui propri figli: rifiuti tossici sotterrati, discariche abusive, oltre alle costruzioni in cemento sulle spiagge che violentano una delle coste più belle del mediterraneo, con uno dei mari più limpidi.
Lo sanno tutti, anche i bambini, che il territorio calabrese è completamente inquinato dall’attività costante che la ’ndrangheta da anni compie amministrandolo tramite “suoi” funzionari comunali, regionali, sindaci, presidenti, dirigenti ospedalieri,editori locali, magistrati, sindacalisti, militari, preti, politici…
Ma,in tutto questo, il problema dell’istituzione che dovrebbe vigilare sulla legalità e garantirla ove non vi sia, ovvero il ministro degliInterni, che è anche segretario di un partito che si è sempre vantato di essere razzista e anti-meridionale, nonché notoriamente infiltrato se non governato dalla ’ndrangheta, con un furto impunito di 49milioni di euro, il problema di questo signore è il sindaco Mimmo Lucano.
In tutto questo, il problema del ministro è Mimmo Lucano e il“Modello” che con tenacia visionaria ha tentato di creare nella sua Riace, cercando di trasformare in realtà quella che per molti di noi era una bellissima utopia, per altri un pericoloso precedente che avrebbe smascherato e smesso a nudo l’ipocrisia e il cinismo delle loro carriere costruite tutte su anni di strumentalizzazione della paura e istigazione all’odio razziale.
Ecco,credo che l’errore sia tutto qui: non dovevo scrivere “Ma, in tutto questo”, dovevo scrivere “Infatti, in tutto questo”