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Educazione e intervento sociale

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Cinquant’anni dopo, i disabili

Alla fine del 1966, a Fermo, nelle Marche, tredici persone disabili e un giovane sacerdote, Franco Monterubbianesi, avviano un’esperienza di vita in comune all’interno di una villa abbandonata e fondando la comunità di Capodarco.

15 Maggio 2017
Matteo Schianchi

Alla fine del 1966, a Fermo, nelle Marche, tredici persone disabili e un giovane sacerdote, Franco Monterubbianesi, avviano un’esperienza di vita in comune all’interno di una villa abbandonata e fondando la comunità di Capodarco.

È difficile rendere conto, in modo sintetico e ponderato, della lunga storia di una comunità che ha peraltro ampliato il proprio raggio d’azione su scala nazionale e internazionale. Preferisco fornire qualche spunto su alcune evoluzioni del mondo della disabilità a partire da quegli anni in cui si profilavano alcuni cambiamenti decisivi e di cui Capodarco è parte attiva, con un proprio percorso. Negli stessi anni, infatti, si gettavano le basi nel mondo anglosassone dei primi movimenti di rivendicazione di diritti e migliori condizioni per le persone disabili. In Italia, l’avvio di questa comunità si colloca nello sviluppo dell’associazionismo che pone i temi di quello che si chiamava handicap, all’interno della cosiddetta repubblica dei partiti, che poco affronta la questione, e di uno stato debole.

L’idea di tracciare un simile quadro si scontra con alcune difficoltà. Mancano analisi storico-sociali utili per andare oltre la banale diatriba del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. È inoltre complicato cogliere sotto l’unico concetto di disabilità, un concetto del resto in evoluzione, un insieme di esperienze sociali e umane molto eterogenee. Facilmente si compie l’operazione di individuarle e accomunarle alla luce del solo fatto che “manca qualcosa” o che questi individui in qualche modo si discostano da quella che pensiamo essere la normalità. Si rischiano, insomma, i minestroni concettuali che veicolano razzismi e stigmatizzazioni più o meno consapevoli e privi della capacità analitica di cogliere sia le molteplici sfaccettature di biologie e funzionamenti differenti sia tutto il sociale di cui sono fatte le esistenze delle persone con disabilità (non esistono altri modi corretti), delle loro famiglie e dei mondi che vi ruotano attorno. Anche nel settore scolastico-pedagogico, che catalizza molte attenzioni sulla questione e in cui l’Italia recita un ruolo pionieristico avendo introdotto, nel 1977, un sistema scolastico unico per tutti (chiudendo le scuole separate e speciali, che tuttavia continuano ad esistere segnalando il fatto che anche quel tema non era, e non è, affatto risolto) non si è in grado di rispondere a semplici domande. Quanto incide nel ciclo di vita di chi ha una disabilità il percorso della scuola inclusiva? Contribuisce, per quanto compete la scuola, a creare inclusione sociale? La nota riproduzione sociale favorita dal sistema scolastico come si comporta in fatto di disabilità?

Mettiamo, tuttavia, qualche punto fermo. Negli ultimi cinquant’anni le fisiologie e le fisionomie della disabilità sono cambiate, sulla spinta delle evoluzioni medico-scientifiche, dello stato sociale e delle contraddizioni del nostro mondo. Alcuni esempi. La persona che simbolizza la disabilità, quella seduta sulla sedia a ruote, aveva fino ad una trentina di anni fa un’aspettativa di vita decisamente inferiore a quella attuale. L’allungamento della vita media e l’invecchiamento della popolazione ampliano, sotto vari aspetti, il tema della presenza della disabilità nella nostra società. La tecnologia costituisce un vero paradosso: è un ausilio per molte disabilità e molte funzioni e produce, nello stesso tempo disabilità. Basti pensare alle menomazioni prodotte da macchine da lavoro, armi e, un dato per tutti, dai ventimila incidenti stradali l’anno con esiti invalidanti, in Italia (150mila in Europa). Le menomazioni di origine oncologica sono un altro importante dato degli ultimi decenni. La disabilità è dunque oggi esito di quella che U. Beck chiama “società del rischio”. Questi elementi nuovi si aggiungono alle classiche causalità biologico-sociali che producono menomazioni fisiche, intellettive, sensoriali e psichiche: malattie congenite e acquisite, infortuni e malattie da lavoro, disagio sociale. La storia dell’ultimo mezzo secolo della società civile legata alla disabilità è anche quella della necessità di veder riconosciute, legalmente e nei servizi dello stato sociale, situazioni, menomazioni, fisiologie, necessità specifiche crescenti ed eterogenee.

Ho usato l’espressione terza nazione del mondo come provocazione numerica che indicasse la presenza di disabilità nel mondo: l’attuale miliardo di persone disabili popolerebbe uno stato secondo solo a Cina e India. In Italia sarebbe la sesta o settima regione, con circa 4 milioni di abitanti; anche se contare le persone disabili non è semplice (chi sì e chi no?) né neutro (a chi, come, con quali budget fornire servizi?). In ogni caso, a questi numeri, si deve aggiungere il dato, altrettanto impreciso, di familiari, professionisti, volontari coinvolti a vario titolo dalla questione. La disabilità è dunque un tema che mobilita ampie fette del mondo sociale, oltre ad essere, evidentemente, un “settore industriale” con le sue vittime, i suoi sfruttati, i suoi soprusi e i suoi padroni, i suoi profitti e le sue miserie.

A fronte delle evoluzioni numeriche e fisiologiche di questo mondo, lo stato sociale che copre questo settore è scandito da alcune grandi tappe: due leggi quadro sulla disabilità (1971, 1992); la legge che disciplina l’assunzione di persone disabili nel pubblico e nel privato (1968, 1999); la legge Basaglia (1978); l’introduzione del diritto ad ausili e protesi (1978); la legge per l’abbattimento delle barriere architettoniche (1989); la ratifica della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (2009). Lo sviluppo di queste forme dello stato sociale legato alla disabilità è stata applicata secondo modalità differenti nelle diverse aree del Paese (e si è detto, per esempio a proposito della legge quadro del 1992 che si trattava di una proclamazione di diritti priva di strumenti che li rendano effettivi) e secondo categorie di menomazione molto eterogenee che fanno segnare importanti sperequazioni e disomogeneità. Da qui anche le numerose distinzioni e frammentazioni all’interno dello stesso mondo della disabilità che, tra settore del lavoro e settore civile, tra privati cittadini e associazioni di categoria, tra servizi socio-assistenziali e cooperative ha dovuto continuamente fare i conti con alcune caratteristiche strutturali del nostro stato sociale.

Come è accaduto in tutto l’occidente, anche lo stato sociale italiano si è costruito secondo una gerarchia tra due piani separati, quello legato al lavoro e quello legato all’assistenza. Oltre al fatto che questa distinzione sembra ratificare un senso comune che, naturalmente, associa la disabilità al non lavoro (cosa che non è vera per tutte le persone con disabilità) e identifica la condizione di disabilità come automaticamente sostenuta da provvidenze economiche (e neanche questo è vero), gli studiosi dello stato sociale italiano, in particolare Ugo Ascoli, hanno individuato un modello di stato sociale cristallizzato. Un modello di tipo particolaristico, basato su una cultura familistica e paternalistica, su dinamiche clientelari, su trasferimenti di reddito in luogo di servizi. Anche le persone con disabilità, i familiari, le associazioni, le strutture di assistenza, si trovano confrontarsi con politiche sociali a regime particolaristico, secondo status diversi, con prestazioni diverse a seconda dei soggetti e delle categorie a cui si riferiscono e importanti distinzioni territoriali tra una regione e l’altra. Anche secondo l’accezione della disabilità come condizione coperta da uno specifico regime di stato sociale, il concetto resta del tutto fuorviante e rischia di creare confusioni e generalizzazioni che sono ben lontane da una realtà articolata e contraddittoria.

Negli ultimi cinquant’anni, la risposta dello stato sociale alla questione disabilità è avvenuta in termini assistenziali, ovvero una forma debole di inclusione basata soprattutto su un riconoscimento economico-previdenziale della condizione di minorazione e su alcuni servizi socio-sanitari, non su misure capaci di costruire servizi e opportunità che mettano in condizione le persone di partecipare alla vita sociale. Dietro a questo modello risarcitorio (ti manca qualcosa, eventualmente ti riconosco una pensione) si individuano e si costruiscono cittadini inferiori. E si continua a proporre, praticamente, una cultura della disabilità che inferiorizza.

La maggior parte delle spese sociali è dunque assorbita dalle spese previdenziali, ovvero pensioni di invalidità – destinate non a tutte le persone disabili, ma secondo limiti reddituali o categorie di menomazione – e indennità di accompagnamento. La quota, negli ultimi anni, di queste misure si assesta a poco più dell’1% del pil, una delle percentuali più basse in Europa. Negli ultimi quindici anni, la quota di queste ultime indennità (circa 500 euro per chi ha bisogno di assistenza continua) ha avuto un incremento rispetto agli altri capitoli di spesa in fatto di assistenza. Tuttavia, a guardarci più da vicino si scopre che le indennità di accompagnamento sono destinate per circa il 75% a persone che hanno oltre 65 anni e per circa il 49% a persone con oltre 80 anni.

Insostanza,lamaggiorpartedellaspesasociale relativa alla disabilità è destinata a persone la cui condizione di invalidità è legata a patologie relative all’anzianità. Ciò significa che la spesa sociale per la disabilità è, di fatto, un ammortizzatore sociale (per settori sociali ugualmente sprovvisti di altri interventi) e non un capitolo di spesa che mira al reinserimento sociale delle persone con disabilità. È una quota di denaro pubblico che, nel coprire parzialmente, le spese che le famiglie devono sostenere per i propri membri anziani (strutture residenziali e badanti), giustifica l’assenza di investimenti specifici sul mondo della disabilità e di altri investimenti per la popolazione anziana.

Tali misure sono peraltro al centro di meccanismi incerti, discrezionali, non standardizzati. I numeri delle assegnazione di tali emolumenti e il tema dei falsi invalidi vanno spesso a braccetto: si registrano percentuali maggiori nelle aree meno sviluppate del paese, dove l’indennità non è più un intervento a favore delle persone con disabilità, ma un sostegno a famiglie in difficoltà economiche. Peraltro, la questione dei falsi invalidi, un reato perpetrato da persone, commissioni di medici compiacenti e talvolta dalla criminalità organizzata, è un fenomeno di lunga data che il recente battage mediatico sembra ingigantire facendogli perdere la sua reale dimensione (il 4% dei disabili) per giustificare politiche e discorsi relativi ai tagli economico-sociali di intere fette dello stato sociale. Negli anni scorsi, un’operazione dell’Inps di revisione e taglio delle indennità (con chiamate a visita rocambolsche) ha portato al risparmio di 111,4 milioni di euro, ovvero 0,67% della spesa annuale per pensioni e indennità (dato Condicio, Fish). Sul fenomeno dei falsi invalidi e della spesa eccessiva in fatto di disabilità, negli ultimi anni si è sviluppata una campagna mediatica i cui contorni scandalistici e i toni hanno contribuito a creare un’immagine di fraudolenti, un fardello economico. Lo stesso fenomeno, un agente al soldo di tagli neoliberisti, è stato riscontrato anche in Scozia.

Lo scivolamento delle spese sociali verso il previdenziale e il suo qualificarsi come ammortizzatore sociale si colloca in una più ampia crisi complessiva dello stato sociale (relativo non solo alla disabilità) che, in mancanza di nuove riformulazioni e di sostanziali investimenti rischia di subire una drastica e decisiva involuzione assumendo funzioni da “welfare caritatevole”, secondo l’espressione di un ministro.

Negli ultimi anni, alcune manifestazioni di piazza hanno sintomaticamente reso evidente il drammatico scenario della crisi dello stato sociale. In pratica, le associazioni e le persone si trovano a dover difendere strenuamente forme di stato sociale “assistenziale” poiché il rischio reale è che non esista più neppure quello. In questo scenario, anche la ratifica della Convenzione Onu da parte dell’Italia rischia di rappresentare, nei fatti, un’arma spuntata. Non a caso, i principi della Convenzione, sono stati fatti valere “in difesa”: un tribunale ha dato ragione ad associazioni e genitori che ricorrevano contro i tagli regionali agli insegnanti di sostegno decretando che questa misura rappresentava una violazione di un diritto inviolabile, quello all’istruzione.

La restrizione dei fondi, in realtà, produce, concretamente, alcuni effetti nettamente orientati, nuovamente, verso una concezione di disabilità lontanissima dall’inclusione e dalla partecipazione. Si torna al passato perché non si è riusciti a “fare inclusione”, perché i dispositivi pensati e deputati per farlo hanno perso senso e mancano i fondi per continuare a farli esistere e rinnovarli facendo fare loro un passo in avanti. Con l’idea che non ci siano alternative, vincolati da ragioni di bilancio (nulla di più oggettivo per giustificare qualsiasi cosa), si fanno, in realtà, giganteschi passi a ritroso.

Ci si ripropone un’idea di disabilità di tipo sanitario e assistenziale. Continuamente attestato, cioè, sull’idea che la persona con disabilità, incapace di fare normalmente, sia un individuo semplicemente bisognoso di cure mediche. Si gioca sulla sopravvivenza, con buona pace dei diritti, della partecipazione, dell’inclusione: sempre meglio di niente, si dirà con pietosa rassegnazione che diventa facilmente cinismo.

Accade, inoltre, che le attuali restrizioni di budget e di servizi colpiscano soprattutto una certa categorie di individui: persone con disabilità non abbastanza “gravi” sotto il profilo sanitario e non abbastanza povere in termini di reddito. Da qui la corsa a sostanziare la “condizione di gravità” come baluardo per vedersi riconoscere servizi e diritti che afferiscono prettamente la dimensione sanitaria, la cura assistenziale e decisamente poco nella sfera sociale. Per chi invece non rientra nella sfera sanitaria si sta assistendo allo svilimento di tutti quei dispositivi dello stato sociale che avevano, nelle loro intenzioni, l’obiettivo di costruire maggiore inclusione. Si prenda, per esempio, la questione professionale. Cosa, più del lavoro, dovrebbe essere utile per costruire partecipazione sociale e lo statuto di cittadino e, del resto, lo stato sociale occidentale è costruito sul lavoro? Una persona con disabilità che lavora, in teoria, non è forse più inclusa, non esce di casa e costruisce relazioni, non riesce a provvedere a se stessa? Eppure, secondo alcune stime, si attesta al 20% circa la quota di persone con disabilità impiegate (tra gli aventi la possibilità di esserlo).

All’interno di questo scenario abbiamo visto anche lo svilupparsi di importanti elaborazioni ed esperienze della cooperazione e del mondo associativo che, a livello locale e nazionale, hanno portato avanti, al di fuori dei classici e dei nuovi partiti, le questioni della disabilità. Ma, specialmente negli ultimi dieci anni, il tema è venuto anche alla ribalta della comunicazione mediatica al di fuori dei pietismi, della cronaca e delle “pubblicità progresso”. Lo sport, come spesso accade, è stato un volano per dare un’altra immagine della disabilità, con le nuove protesi e i campioni avvenieristici, col rischio di monopolizzarla, mentre la realtà è che la disabilità è ancora ferma agli anni Cinquanta. Ma questa immagine mediatica, dalla tv alla stampa alla rete sta cercando di costruire un nuovo senso comune. Ai vecchi stereotipi del misero disabile, oppure interpretato secondo il binomio dei superdisabili, quelli emancipati dalla loro disabilità, e dei superhandicappati, quelli schiacciati dalle loro menomazioni, si aggiunge il nuovo stereotipo del “diversamente abile” per cui la “disabilità è diventata un’opportunità”.

I media celebrano il campione, arrivano a giochi fatti, eliminano e annullano tutta la complessità umana e sociale della disabilità che ci si presenta sotto la luce del suo superamento, diventa opportunità. In definitiva, la disabilità, ha dato l’opportunità a tutti questi campioni dello sport, dello spettacolo e della vita, di esprimere se stessi nella misura del “diventare qualcuno”. Sono individui diventati artefici del proprio destino, a dispetto del fato avverso.

Il modello funziona in positivo e in negativo. Chi sono, infatti, quelli per cui la “disabilità non è stata un’opportunità”? Chi sono quelli che, per mille ragioni individuali e sociali di cui questo tipo di comunicazione non riesce a rendere conto, non sono stati capaci di prendere quel treno? Come pensarli, se non tornandoli a definire con le argomentazioni degli stereotipi e dei pregiudizi ampiamente deficitari di argomenti e chiavi di lettura del fenomeno disabilità? Si torna a stigmatizzare chi non rientra nel nuovo modello che è, ormai e al contempo, ambizione sociale e misura della realtà e degli individui.

Il pietismo verso la disabilità di cui era intrisa la televisione tra gli anni settanta e la metà degli anni novanta invocava l’idea della necessità di aiutare questi poveri e simpatici handicappati telegenici, si appoggiava e sosteneva l’ideale assistenzialistico. La disabilità nella versione mediatica attuale dell’opportunità propone invece l’individuo artefice del proprio destino, senza bisogno di diritti, di assistenza, di pari opportunità, è l’eroe che basta a se stesso e non ha bisogno di nulla per diventare se stesso, cioè qualcuno. Sono questi eroi proprietari e artefici di se stessi a costituire il sotterraneo referente mediatico dello smantellamento delle politiche sociali, del venir meno dei diritti, dell’individuo sovrano che non ha più bisogno di sostegni, diritti e ancoraggi sociali per poter vivere e realizzarsi.

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